Aglianico del Vulture 1994 d’Angelo


Aglianico del Vulure 1994 doc D'Angelo

In fondo quando Donato D’Angelo mise in commercio questa bottiglia del 1994 non pensava certo che sarebbe stata stappata sedici anni dopo in un bistellato. Un Aglianico del Vulture base, fatto con uve acquistate, quattro, cinquemila lire al massimo sugli scaffali delle enoteche di città.


Eppure da questo rosso non concentrato, lavorato in un’epoca in cui da poco si cominciava a ragionare al Sud sulle rese per ettaro, di annata neanche particolarmente esaltante, eppure sono uscite belle sensazioni.
Me lo porge per divertimento, fuori carta, Claudio De Mauro, dominatore della sala insieme alla moglie Mariella Caputo della Taverna del Capitano. «Un gioco». Ecco, allora come un divertimento innocente spieghi ai bimbi tante verità: l’assoluta immortalità dell’Aglianico, a ben vedere non sono ancora riuscito a berne uno in purezza senza freschezza negli ultimi trent’anni. La magia delle note autunnali, cenere, fumé, confetture di frutta rosso sotto spirito, cuoio, buccia di castagne arrostita, poi l’ingresso un po’ tondo, troppo magari per via degli anni ma solo per i palati abituati all’aglianico, infine una beva appagante, fresca, lunga, di corpo, capace di affrontare con coraggio anche cibi impegnativi come il maialino nero casertano o la zuppa di coccio preparate da Alfonso in cucina.
D’Angelo, per chi non lo sapesse, è uno dei nomi storici della viticoltura lucana, uno che seguito un suo percorso deciso: quando stappiamo una sua bottiglia sappiamo esattamente cosa troveremo. Quell’atmosfera calda, di plaid e di caminetti, evocativa di arrosti pronti per tavole imbandite.
L’Aglianico non ha altre speranze di mercato, parlo dei piani alti, se non lanciare la sfida del tempo. Chi punta a quello merlottizato e piallato dalla barrique può squicciare la moda del momentto, ben sapendo di essere sostituito in pochi giorni da un altro rosso. Ma, dopo sedici anni, sono ben poche le bottiglie che possono dire, senza tema di smentita: bevimi, sono pronto.

2 Commenti

  1. Non c’è alcun dubbio. Dopo 16 anni, almeno in Italia, sono ben poche le bottiglie che possono permettersi di di esprimere un messaggio di questo tipo. A ben guardare, partendo dal Nord, “espressioni di vigna” degne di essere chiamati “grandi” ce ne saranno, si e no, 5 o 6 al massimo. Penso alla triade Barolo-Barbaresco-Valtelllina, all’Amarone, al Brunello, al gruppo degli Aglianico (Taurasi, Vulture) e l’Etna. Qualcuno, per partito preso, avrebbe inserito forse anche qualche Chianti. Io li ho saltati senza pensarci. Anche se forse, in termini di longevità, i Chianti Rufina hanno qualche numero…

  2. Una sicurezza, ancora oggi un buon rapporto qualità/prezzo per uno dei pionieri insieme a Paternoster della viticoltura lucana del Vulture che ha fatto conoscere questo glorioso vino in tempi in cui la gente conosceva solo il chianti e ci si riempiva la bocca a parlarne.
    Oggi fortunatamente si ha la possibilità di conoscerlo anche grazie alla grande distribuzione, certo un vino da tutti ma non per tutti se bevuto assoluto ma che non trova pari a quel prezzo con la selvaggina, arrosti e formaggi stagionati.
    Un ottimo prodotto sempre di D’Angelo è secondo me il Canneto che ha però un altro stile ed un altro prezzo.
    Carpe Diem

I commenti sono chiusi.