Cinque Terre, Vétua 2011 / Azienda Agricola Vétua


Qualche striscia di focaccia con cui gustare il Cinque Terre Vétua 2011

di Fabrizio Scarpato

Non sempre c’è il sole, e le nubi, che trasformano il Mesco in un profilo minaccioso, riempiono gli occhi di sciabolate grigie e lucenti, del verde cupo dei filari e del bianco della schiuma, sul mare increspato dal libeccio. E l’aria si fa appiccicosa, il salmastro risale i terrazzamenti e scende lungo le radici, fino a intaccare l’anima, definendo un modo di essere. Sarà per questo che i vini delle Cinque Terre sono spesso così severi, gesto e vita da mettere al riparo, da proteggere con ostinazione rispetto agli elementi, rispetto agli altri. Un bene prezioso, poche bottiglie nelle luci fioche delle cantine, a cui rivolgersi quando fuori il tempo si fa brutto.

Anche questo Vétua, che prende nome da una collina sovrastante Monterosso, è una lama grigio verde impreziosita da riflessi gialli e cristallini, carnosi e sfaccettati: una miscela dura e confortevole, quasi un infuso di tè bianco attraversato da lampi metallici e da quella salsedine delle chiglie di barche tirate a secco, che invade il naso di intensa mineralità. E poi sono erbe aromatiche, verzure falciate, frutta bianca che sa di pera: sul fondo un mulinello di anice, secco e vorticoso come il vento che sale dal bicchiere.

Cinque Terre Vétua 2011

Probabilmente è anche rispetto e inevitabile senso del lavoro e della fatica: qualcosa di antico, elegante discendente, per colore e dimenticati vitigni, di certi vini contadini che arrivavano come doni rari nelle osterie e sulle scrivanie dei medici, alla periferia di Spezia, dopo aver valicato il Colle del Telegrafo, subito sopra Biassa. Sarà per questo che il vino non è ruffiano, ma anzi è diritto e sincero, di quella gentilezza ruvida che te lo fa versare nel bicchiere, fresco e sapido, mentre tagli qualche striscia di focaccia sulla carta gialla, affetti un salame e fai a spicchi una bella torta di riso. Un pezzetto di Canestrato di Moliterno, potente e stagionato, piovuto dal cielo a miracol mostrare, trova nel sorso pieno sostegno, come dire che anche i liguri sanno trovare brevi e intermittenti attimi di morbida intensità.

E ne bevi, al caldo di una casa: una progressione scarna e tagliente, che sembra non concedersi, graffiata da piccoli tannini e da una vena balsamica officinale, di orzo e di menta. Alla fine, un soffio di mandorla e un alito d’ostia dei ricciarelli, insinuano, per un momento, le sensazioni e le suggestioni di un Marsala Vergine, secco e asciutto.

Un vino che ti porta con sé, come i pensieri sul mare in burrasca. Alzi il bavero del cappotto e socchiudi gli occhi. E se per caso dovessi avvertire un sottile mal di testa, sarà stato il vento, sferzante, sulla faccia.

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