Degustazione alla cieca o degustazione scoperta?


Bisogna un attimo provare a resettare tutto e ricominciare daccapo.
Tante botte, tanti sospetti, decine, centinaia di discussioni ricche di insulti tra chi vuole punti e chi no, e tra quelli che degustano alla cieca e coloro i quali invece lo ritengono molto limitativo.
La critica enologica italiana è cresciuta maritata ai produttori negli ultimi vent’anni, o viceversa, e questo ha creato non poco confusione e accuse di disonestà o, meglio, di non terzietà.


Può essere, ma questo accade in tutti i campi: del politico meglio non parlare, sull’economico ancora peggio, in quello sportivo bingo. E via discorrendo.
Questo perché l’esercizio della critica è spesso vissuto come manifestazione di potere e non come servizio a chi ci legge. E non ci saranno ordini o leggi che tengano, dipende sempre dalla testa delle persone e dal premio del mercato. Del resto è anche davvero difficile dopo aver seguito per anni lo sviluppo di una azienda porsi sempre nell’ottica di chi acquista e prova per la prima volta una sua bottiglia.

In questi ultimi anni molta critica enologica è stata messa sotto accusa non perché ci sia stata una impennata etica generale, sarebbe ben strano in un Paese ripiombato ai tempi dei capitani di ventura con la morale al livello più basso degli ultimi secoli.
Semplicemente la crisi economica ha fatto andare in corto circuito un meccanismo collaudato formatasi negli anni ’90 e che ha raggiunto il proprio culmine proprio nel periodo attorno all’11 settembre, quando le aziende cambiavano il loro stile produttivo per compiacere le indicazioni di alcuni critici e beccarsi così i riconoscimenti che servivano poi per avere mercato e vendere. Erano gli anni della cioccolata calda, della vaniglia e della dolce dolcezza.
C’è dunque una ragione economica ben precisa nella necessità odierna di rimodulare la critica enologica, anche alla luce dei nuovi strumenti forniti dalla rete. Ma anche in questo caso molti hanno confuso il mezzo con il contenuto: non è la forma di espressione a determinare l’indipendenza e la terzietà della critica, ma proprio la precisa volontà politica di essercitare in tal senso.
Al netto di ogni comportamento lineare, su cui non vi è mai ragione di dubitare fino a prova provata, il momento clou in cui questo rapporto tra produttore e critico trova il suo equilibrio di vista è proprio la degustazione del prodotto.

Kim Basinger in 9 1/2 Weeks, 1986

Chi il vino lo vende ha sicuramente strumenti più adatti per capire se una bottiglia può o meno funzionare sul mercato. Ma non per questo il suo parere può essere decisivo perché il vino interpreta, come il cibo, il significato più profondo del vissuto di una comunità, del suo rapporto con se stessa, con il resto del mondo, con la sua storia. Spesso si tratta di una valutazione nell’immediato, non sui tempi medio-lunghi.
Per capire una bottiglia di vino dunque oltre ad essere buoni venditori è necessario infatti avere una sconsiderata cultura umanistica e antropologica, capire fino in fondo non solo perché dal punto di vista agronomico alcune uve si trovano meglio su quel terreno piuttosto che in un altro, ma anche entrare nel merito delle scelte fatte nel corso degli ultimi decenni dalle comunità.
Gli enologi vivono con fastidio crescente queste ingerenze nel merito del loro lavoro, lo si può capire, ma bisogna anche ricordare che negli ultimi dieci anni sono loro i principali responsabili del processo di omologazione in corso in tutte le regioni. Questo ovviamente non vuol dire che si possa fare vino a prescindere dalla scienza enologica, ma certo anche questa deve fare i conti con la visione umanistica della vita e delle modifiche del gusto dovuto al tempo se ha davvero l’ambizione di firmare qualcosa che si ricorda e non soltanto che si vende.


A questo punto capirete perché la scelta della degustazione è così importante.
In sintesi, la degustazione coperta, ossia bere senza vedere l’etichetta è il liceo, quella scoperta è l’università.
Qua ovviamente non si parla di concorsi per sommelier dove si affinano le tecniche olfattive e di abbinamento.
Ma il sommelier è solo l’attore finale di una lunga filiera che inizia con il viticoltore nel cui snodo c’è sempre qualcuno che quel vino lo deve raccontare.
In discussione in questa sede è il modo più affidabile per rendere un servizio a chi legge. Compresi i sommelier.

Io penso che la prima fase dell’approccio a un vino sia quella di provarlo senza conoscere il produttore, possibilmente senza neanche poterlo immaginare. In quel momento si è così più vicini al venditore o al sommelier che per lavoro devono valutare il prodotto in quanto tale, per le potenzialità di mercato o di abbinamento nel corso di un servizio.
Ma quando il giudizio mentale su quel prodotto è ben scritto, è il momento di passare all’università. Ossia alla degustazione scoperta: alla storia del produttore, alla tecnica di produzione, al suo rapporto con il territorio, al vitigno scelto, al marchio stesso.
Sono questi i fattori decisivi nella scelta consapevole di bere qualcosa piuttosto che un’altra. Ed è nella valutazione complessiva che si può esprimere al megli un vino e dare un giudizio completo: solo così vini entrati sottovento negli anni ’90, diciamo per esempio i Lambruschi, possono accedere a pari dignità con altri ritenuti, a torto o a ragione, più importanti e decisivi.

13 Commenti

  1. Non avrei scomodato il lambrusco, ma sul resto concordo. Le degustazioni coperte hanno un senso quando sono circoscritte a un confronto tra tipologie precise di vini, ma sono comunque un modo per evitare di confrontare la degustazione di un singolo vino con la propria memoria gustolfattiva. Sono la lezione, non l’esame. Un esercizio quest’ultimo, più difficile e che mette più a nudo l’esperienza di un critico. Ma anche più preciso e onesto.

  2. La degustazione alla cieca o quella scoperta non possono essere paragonate al liceo o all’università per me non c’entra nulla assolutamente. sono solo di partenza la stessa cosa che deve essere vista da punti diversi. cmq la degustazione alla cieca non può esistere o essere utile senza prima un background conoscitivo e quindi delle degustazioni scoperte.

    1. esatto, perchèse conosco la mia zona e voglio con 4 amici stappare 6 barbaresco o sei barolo della stessa annata la devo conoscere ben bene la zona, e allora è una cosa seria,diversamente diventa un giochetto come il giro della bottiglia che può uscire qualsiasi risultato. Tra professionisti poi non ha molto senso perchè dovrebbero essere liberi di mente anche con l’etichetta davanti al naso

  3. Tutto condivisibile, è giusto sottolineare le differenze tra le due tecniche, con le implicazioni pratiche che si portano dietro. Un solo appunto, nel passaggio “per capire una bottiglia di vino dunque oltre ad essere buoni venditori è necessario infatti avere una sconsiderata cultura umanistica e antropologica”, per “sconsiderata” forse si vuole intendere “considevole” o “sconfinata”

  4. Per me: la degustazione alla cieca è ‘l’unico modo oggettivo per valutare un vino senza farsi condizionare dai pregiudizi legati al produttore, al vitigno/i, alla zona di produzione, all’annata e alle amicizie e conoscenze varie su fatti e azienda,. ecc. Poi l’acquisto consapevole e la ri-degustazione allo scoperto è il naturale completamento del processo per avere una visione d’insieme del vino e giudicarlo con tutti i crismi del caso aggiungendoci finalmente la parte emotiva-soggettiva e la necessaria concentrazione che quella singola bottiglia merita nella sua interezza espressiva”.

    1. “la degustazione alla cieca è ‘l’unico modo oggettivo per valutare un vino senza farsi condizionare dai pregiudizi legati al produttore, al vitigno/i, alla zona di produzione, all’annata e alle amicizie e conoscenze varie su fatti e azienda”

      la massima aspirazione di un degustatore per professione, invece, è tendere a non farsi condizionare da nulla, sopratutto da se stessi, dalle proprie opinioni, dai propri gusti. La tua è un’obiezione che spesso si è fatta, ma a me sembra una sorta di paliativo o nulla più che un atto notarile. Non è la regola, ma neanche l’eccezione, che un degustatore che si occupa di critica dopo averli bevuti svariate volte li riconosca alla cieca i vini.
      Tra l’altro, le degustazioni in batteria e alla cieca, solo la migliore soluzione possibile per certe faccende, non la perfezione: comportano anche degli accorgimenti tecnici perchè i valori non siano falsati.

  5. Riflessione interessante e sostanzialmente condivisibile. La degustazione alla cieca è indispensabile per l’analisi organolettica di un vino scevra da qualunque “suggestione” mediatica o commerciale. Anche il contenuto di un libro non ha nulla a che vedere con la sua copertina. Ma è anche vero che non avrebbe senso farne la recensione senza mostrarla…

  6. la degustazione alla cieca ti permette una valutazione”oggettiva” che si basa sulle conoscenze personali, memoria olfattiva e gustativa, capacità e allenamento di riconoscere un vitigno, ma di certo non è sufficiente a dare un giudizio complessivo che includa gli elementi del territorio,ìd i provenienza, dello stile di vinificazione dell’azienda, della storia e del carattere dell’azienda e del vignaiolo/a. sono infatti sempre piu’ convinta che il vino somigli a chi lo fa, per questa ragiione ritengo essenziale, dopo una rima fase di valutazione oggettiva, passare ad un momento di riflessione e comparazione con la degustazione scoperta. questo ragionamento si puo’ applicare ai sistemi di vendita del vino, in italia, gli agenti girano con cartelle gonfie di cataloghi, sarebbe meglio, invce, come in america, girare con una borsa termica con tot bottiglie di vino utili per un numero programmato di visite, chi compra deve capire costa acquista e perche’ paga un determinato prezzo, non stiamo ordinando la spesa al telefono al salumiere:)

  7. Collegandomi al post di ieri, mi par di capire che la degustazione cieca conta per il 60-65%, quella scoperta per 35-40% nell’attribuzione del “punteggio Pignataro”. Senza la degustazione scoperta nessun vino otterrebbe valori sufficienti: se ne deduce che conoscere, raccontare saperi e sapori, cogliere una filosofia, siano aspetti fondamentali. Umanistici, di parola, di un linguaggio finalmente diverso. Perché se conta solo il 60%, non basta più il linguaggio di degustazione mutuato ais, quello famoso dell’abbastanza, necessario alla cieca, ma ormai incompleto sia dal punto di vista politico che emotivo. Necessario ma non sufficiente, perché occorre articolare e aggiungere. E non si suggestiona né si informa, né ci si emoziona con “l’abbastanza”.
    Insomma non farei grande differenza tra i tipi di degustazione, è lo schema mentale, i confini ampliati della descrizione e della valutazione che cambiano, che è necessario cambiare.

    1. Fabrizio, mi farebbe piacere leggere una tua valutazione in centesimi sui vini di Quintarelli che abbiamo bevuto insieme. Senza impegno, solo per far due chiacchiere …

  8. …ma quante teorie e paroloni, cosa resta di quella sublime bevanda che accompagna i nostri piatti e rende speciali certi momenti? Non prendiamoci troppo sul serio, beviamoci sopra. Prosit!

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