Gaja Pensiero: Robert Parker e i punteggi, gli artigiani e l’industria, i ritardi di Uiv e Federvini, i blogger e il mercato


Angelo Gaja: l'appassionata cavalcata di 90 minutii con i produttori campani

di Giulia Cannada Bartoli

Angelo Gaja, il vignaiolo con migliaia di chilometri nelle gambe,  si è fermato a Napoli con i produttori di vino campani, per festeggiare i cinquant’anni di attività (1961-2011) dedicati all’azienda di famiglia, la cantina Gaja di Barbaresco.Un evento senza precedenti, organizzato nei minimi dettagli da mesi. La grande sala degli Specchi del Grand Hotel Parkers è tutto un pullulare di sommelier e addetti ai lavori per preparare la degustazione memorabile che è seguita al momento clou della giornata, il racconto di 50 anni di lavoro di Angelo Gaja. La sala congressi è gremita, i produttori campani, soprattutto gli artigiani della vigna, le aziende di medio piccola dimensione hanno risposto all’ appello da tutte le province della regione. Ad interloquire con Gaja ci sono Luciano Pignataro e Gimmo Cuomo.

Angelo Gaja tra Luciano Pignataro e Gimmo Cuomo

Gaja parte di gran carriera: fa un paragone forte per  scuotere la sala e far comprendere che il mondo del vino non è quello oltre i fili di recinzione dei vigneti, ma che bisogna saper guardare molto oltre e calarsi nella realtà internazionale. Si parla naturalmente del caso Napa Valley e di Mondavi  che produce oltre un miliardo di bottiglie (non esiste niente del genere in Europa). A lui si sono ispirati tutti gli italiani che aspiravano  a fare grandi  volumi.  Mondavi è stato il pioniere dell’enoturismo a Napa Valley, – prosegue Gaja – è stato lui a far decollare l’enoturismo, strumento indispensabile per riuscire a trasferire la cultura del vino ai consumatori americani  che conoscevano poco, ma, erano curiosi e desiderosi di andare a visitare in loco,  per rendersi conto del processo di  vinificazione. Mondavi ha fatto di più, ha invitato i grandi nomi dell’alta gastronomia francese a casa sua, Paul Bocuse  e tanti altri.  Lui – spiega Gaja –  ha lavorato per far capire che il vino prima di tutto si consuma con il cibo,è stata un’operazione ardua non ancora completata, gli americani non sono ancora del tutto abituati ad accompagnare il vino al pasto. Come sempre, afferma Gaja, interrompendosi ogni tanto per salutare qualche produttore,  dagli USA arrivano degli input che  noi abbiamo subito:  eravamo convinti di essere  gli unici depositari della storia e  del futuro della viticoltura, e, invece da qui a dieci anni la produzione del nuovo mondo ci supererà anche in quantità. Non dobbiamo aver paura – esorta Gaja,  il vino è una bevanda straordinaria, perché è  cultura, è memoria storica, cattura un interesse eccezionale; è giusto quindi che anche negli altri paesi ci siano soggetti che vogliano tentare di misurarsi anche con la produzione vinicola, piantando vigneti e  cercando di produrre bene, anche in aree climaticamente impensabili, ho visto fare viticoltura n ei deserti,  in Australia,  in Argentina, Cina, Afghanistan, Brasile, e India,   dove ci sono zone molto umide e non vocate. Queste popolazioni comunque tentano di produrre  vino anche per spirito di orgoglio nazionale grazie alla consulenza di prestigiosi wine makers. Non è una produzione che ci deve far paura, insiste il testard viganiolo piemontese con sguardo fermo, dobbiamo però accettarne l’esistenza e sapere che nei loro paesi troveranno una collocazione anche abbastanza rilevante con la clientela domestica, proprio grazie all’orgoglio di acquistare un prodotto nazionale. Ancora dagli Stati Uniti arriva il secondo fenomeno che cambiato il mondo della viticoltura negli ultimi 50 anni: ROBERT PARKER, un fenomeno travolgente per gli Stati Uniti, e non solo. Prima di tutto perché nasce come Mondavi  in questo paese, mercato numero uno con trecento milioni di abitanti,  dove il consumo di vino è in progressiva crescita,  in America 80 milioni di persone  bevono vino occasionalmente, hanno un potere d’acquisto alto, che fa in modo che gli USA restino per  almeno altri 10 – 15 anni  il mercato per antonomasia del consumo di  vino . Parker  si occupa di vino da 32 anni, prima di lui  la critica enologica era nelle mani degli inglesi, Master of Wine, super esperti, che parlavano un linguaggio dotto, da circolo e club esclusivo, difficile da capire per i neofiti, tipico della cultura chiusa del club, non accessibile a tutti, dove,  per entrare bisogna avere certi requisiti, perché si riteneva che il vino di qualità fosse un prodotto di elite.
I critici anglosassoni sono conoscitori profondi della regione bordolese, di tutti i suoi chateau e della Borgogna, ma,  difficilmente era possibile capire le differenze qualitative. Parker allora  esce fuori con una trovata geniale:  ad un lessico descrittivo tecnico di un vino, accompagna il punteggio, da 50/100 , sistema intuitivo per tutti. Poi nel tempo si sviluppano due approcci diversi: quelli che desiderano approfondire anche il linguaggio oltre al punteggio e quelli che vanno in enoteca  per comprare i punteggi.
Parker ha avuto un grande merito sull’apertura del  mercato del vino, ha aperto le strade del commercio del vino, c’è stata un’esplosione nei consumi, questo metodo libero, è stato poi  adottato in tutta Europa tranne che  dagli inglesi. Si dice che Parker abbia orientato il gusto, non sono del tutto convinto, – ci dice  Gaja –  è vero sì ci sono anche dei vini cd. “parkerizzati,  vini che eccellono per corpo struttura , ridondanza, abbondanza,  ma è vero anche  che nel mercato specialmente USA , e, soprattutto all’ inizio,  c’èra il 95% di consumatori occasionali che aveva bisogno di semplicità, di bere un vino piacevole,  del quale capire subito provenienza e varietà (chardonnay, cabernet sauvignon). Gaja passa poi a spiegare il concetto di gusto internazionale, in realtà è una sciocchezza, è gusto bordolese trapiantato poi in tutto il mondo, in situazioni diverse dal clima di Bordeaux, facendo venir  fuori  vini robusti e marmellatosi , questo è  quello che definiamo gusto internazionale.

a proposito di artigiani: da sx Bruno de Conciliis e Luigi Reale. Cilento e Tramonti

Quando entravo 40 anni fa nei ristoranti,  – ricorda Gaja –  c’ era almeno  mezza carta dedicata a Bordeaux, un po’ di Borgogna e qualche champagne. Oggi la situazione si è ribaltata, ci sono 150 chateau che dettano prezzi impensabili, ( vedi Latour 2009 a 500 euro),   poi  ci sono alcune migliaia che vanno al traino dell’elite  e circa 600o chateau che sono in crisi profonda. Il nuovo mondo comincia a bere i propri vini, ha saputo fare marketing, sottraendo quote di mercato ai bordolesi di livello medio.  Con lo champagne questo non è successo, perché la percezione del prodotto, legato a momenti di festa ed occasioni particolari lo protegge da qualsiasi crisi. I vini di gusto bordolese prodotti nel nuovo mondo diventano  così competitor dei  6000 chateau francesi. Orgoglio,  azioni di promozione e stampa hanno saputo giocare bene con le leve del marketing ed hanno divorato una bella fetta di mercato. Veniamo ai ricordi e al presente dell’Italia, –   ricordo che nel 1963 –  64 in Germania,  nei ristoranti si vendeva vino italiano in bottiglioni di qualità infima,  a prezzo delle patate , davvero un disastro. Le cooperative hanno mandato negli Stati Uniti dei vini terribili, in bottiglioni senza nessuna attenzione per la valorizzazione del prodotto. In Italia siamo partiti da sottozero, mentre la Francia nel dopo guerra,  già collocava il meglio dei propri prodotti, per  poi gradualmente introdurre le fasce più basse, l’ Italia del vino è stata capace di risalire da sottozero, compiendo operazioni straordinarie. Noi italiani che siamo soliti piangerci addosso e vedere solo il negativo, in pochi anni abbiamo provocato un forte cambiamento in positivo  del mercato mondiale del vino.  L’anno scorso  l’Italia ha esportato 10 % in più  e il 40 % in più in volume rispetto alla Francia.

un momento della degustazione seguita all'incontro con Angelo Gaja

Gaja ha parlato per un ora e mezza, nessuno ha dato segni di noia o disinteresse, è stato capace di tenere un ritmo serrato fatto di dati, considerazioni, storie e, persino di un sondaggio pubblicato su I numeri del Vino che è passato sotto silenzio in Italia. Gli spagnoli guardano al successo del vino italiano, hanno avviato un sondaggio nell’off trade,  nei negozi, suddiviso per fasce di prezzo da meno di 5 euro fino a 50 euro e oltre. Gli industriali italiani (ci va giù pesante Gaja) non fanno trapelare nulla, non vogliono avere altri concorrenti sui loro mercati. Laddove, invece l’Italia sotto i 5 euro  non c’è, ma è in ottima posizione nelle fasce intermedie di prezzo ( f.co cantina dai 3 ai 12 euro).

Il nostro paese, – continua Gaja – è notoriamente più debole sui mercati asiatici perché, specialmente la Cina,  è molto sensibile all’influenza dalla cultura bordolese, (arrivata da  Hong Kong ex protettorato inglese) della Borgogna e dello Champagne. L’Italia  esporta solo il 5% in Cina, dobbiamo rimboccarci le maniche! Gaja sembra un generale che da il via ai battaglioni, non prima di aver spiegato le tattiche di attacco: avanti  devono andare le aziende pronte e più agguerrite per aprire la strada, poi quelle più piccole, che possono farlo solo se fanno rete, visto che la massa critica dei singoli produttori non può competere su questi mercati. Infine, la carta vincente del Gaja Style: non basta andare una volta ogni tanto, bisogna muoversi, seguire i clienti almeno due volte l’anno,  bisogna  seguire, raccontare.

All’inizio gli industriali sono andati avanti, semplicemente imponendo il brand, la denominazione: Frascati, Chianti, Barbera, Berdicchio, spesso di qualità non eccelsa, poi i clienti hanno cominciato  a pensare che dovevano esserci altri vini a denominazione più buoni e sono venuti in Italia a cercare il lavoro dei piccoli artigiani del vino, ovviamente questo è un processo lento. Oggi le cose sono cambiate,le distanze si sono accorciate,  bisogna darsi più da fare, c’è bisogno di più dinamismo e gli artigiani rappresentano un patrimonio straordinario.

Chi è l’artigiano
L’artigianalità per me – aggiunge Gaja – corrisponde ad azienda familiare,  la famiglia è depositaria di un sapere non teorizzato, di esperienze che si trasmettono  di generazione in generazione,  fanno parte di un know how di conoscenze che,  se utilizzate intelligentemente,  fanno acquistare una grande forza. Si tratta in genere di aziende che non acquistano uve,  non perchè le altre uve siano cattive, ma,  perché vogliono avere il controllo totale dalla vigna alla bottiglia, sono aziende in cui il montante medio annuale  per ettaro arriva ad 800 – 1200 ore, perché, per fare la qualità non bastano le macchine, ci vogliono uomini e donne capaci, con cultura da trasmettere, capaci di mettere le mani sulla vite,  persone che siano in grado di capire , d’intuire persino il tempo della vendemmia, a volte bastano 4 giorni di differenza  per cambiare la qualità, o, ottenere l’eccellenza, o semplicemente il buono. E’ fondamentale la capacità d’intervento dell’artigiano della terra al momento e nel modo giusto, con  passione e aspirazioni d’eccellenza. L’artigiano non segue solo una strada, le mode,  questa è la sua  ricchezza, la diversità. Gli artigiani sono complementari ai produttori dei vini delle opportunità, che non sono i nostri nemici, – sottolinea Gaja – ma solo competitor dai quali  gli artigiani devono trovare il modo di differenziarsi, non è una cosa facile,  perché sono forti , hanno savoir faire con i giornalisti: in Italia ci sono 600 premi giornalistici, ma a che servono? È un modo per diventare amici, ma i piccoli non riescono a fare queste cose qui a quei livelli, il bio dinamico nasce da qui, dalla necessità di differenziarsi. Gaja passa quindi ad un breve excursus sula produzione regionale: sembrava che il vino di qualità si producesse solo in Piemonte e Toscana,   invece, anche la Sicilia ha fatto tanto e la Campania è forte, possiede ricchezze straordinarie. La Puglia è un po’ piu’ indietro, c’è bisogno di  più artigiani.

La Campania e il Sud
La Campania ha già dei vini valorizzati – continua Gaja – le strade sono aperte c’è solo da lavorare seriamente. Tuttavia, gli artigiani che lavorano con grande serietà sono oberati da una serie di problemi “accusa” Gaja: “non siamo rappresentati, nessuno ci prende in considerazione, Confindustria e Confagricoltura hanno i propri leader e aziende , mentre noi siamo sparsi,  come cani sciolti, non abbiamo forza, bisogna cambiar registro, ecco la ricetta: in primis, niente  gelosia  e invidia tra colleghi, quelli più bravi vanno spinti a rappresentarci, entrare nelle associazioni, tenere le relazioni, ma non a vita, dopo qualche anno è d’obbligo l’avvicendamento. Questo è l’unico modo di dar voce agli artigiani che sono il 95% delle aziende italiane incapaci di eleggere un soggetto capace di rappresentarli, spesso scegliendo  soggetti privi di capacità, che diventano a loro favore. Gli artigiani devono anche capire che il mondo del vino è cambiato: non è detto che bisogna concentrarsi  tutti sull’export, ma,  certamente bisogna considerarlocon maggior attenzione. Ci sono anche dei fondi europei dedicati all’export verso paesi extra comunitari, è chiaro che per accedere a tali risorse è necessario costruire dei gruppi, reti o consorzi che siano, il risultato è che spesso i fondi rimangono lì inutilizzati. Le aziende artigianali hanno un altro straordinario mercato, quello comune,  fatto di oltre 600 milioni di abitanti, un mercato con i fiocchi, maturo,  che non aumenterà il consumo pro capite ma potrà consentire di  tagliare fette di mercato ai francesi, per fare ciò è necessario essere intraprendenti, bisogna muoversi. Anche la vendita in azienda è un potenziale forte veicolo, ma, bisogna imparare a raccontare, narrare, romanzare, attrarre i visitatori, tutti potenziali clienti. Ci vogliono scuole di narratori che vadano anche all’estero a spiegare le nostre bellezze autoctone, trasmettere emozioni e curiosità, ci vuole istrionismo!  Angelo Gaja è capace di vestire i panni dell’istrione alla perfezione, salvo dismetterli quando è il momento di andare in vigna o dar gambe al proprio vino, macinando chilometri e miglia.

La comunicazione
Altro aspetto fondamentale,  testimonia Gaja,  è l’informazione bisogna leggere, aggiornarsi: “Rompete la televisione, leggete del mondo del vino, non solo del vostro giardinetto,  sul sito Vinitaly c’è un dibattito, perchè il mercato italiano non funziona? I consumi non crescono perché è  cambiato lo stile, il modo di consumare, la Francia e l’Italia hanno il livello di consumo pro capite più alto del mondo, sono 38 – 40 litri per abitante, prima erano molto di più, ma non significa niente,  i tempi sono cambiati.

Dall’informazione alla comunicazione il passo è breve: in Italia si comunica, lo facciamo tutti abbastanza bene  – prosegue Gaja.  Gli artigiani devono fare un altro passo, diventare imprenditori artigiani, è scontato fare la qualità, ma non basta, bisogna saper fare e far sapere,  cioè fare marketing.

Se gli artigiani restano individualisti, ci saranno grossi pericoli come quelli delle  associazioni che hanno chiesto di fare l’igt Italia! Il Piemonte ha dato un pessimo esempio con la doc Piemonte, sono gli industriali che hanno bisogno di queste coperture per fare di tutto. Gaja va avanti senza risparmiare nessuno: “Le cabine di regìa esistono,  ma lavorano nel proprio interesse,  non per quello degli artigiani. Ci sono state affermazioni di Federvini  che hanno sostenuto, a seguito del  riconoscimento Unesco alla dieta mediterranea, che il consumo di vini, aperitivi, dei liquori e distillati fa parte dello stile e dell’alimentazione mediterranea! Mi pare eccessivo, – tuona Gaja –  è solo il vino a far parte integrante della dieta mediterranea. Si  rischia di fare confusione trai  tipi di alcol, quello del vino da 9000 anni si forma ad opera dei fermenti per un processo naturale biologico, ciò non accade per quanto sopra.

L’alcool del vino è diverso, l’abuso è sempre negativo, ma è la natura del vino che disegna i paesaggi.  A proposito di dieta mediterranea e ristorazione , Gaja propone investimenti formativi in Brasile, India Russia e Cina per addestrare cuochi italiani, promuovere così il comparto agro alimentare  invece di spendere in  operazioni politiche di breve periodo che fruttano solo a chi fa le leggi.  Leggi… gli  artigiani sono ossessionati dalle carte e dalle incombenze burocratiche, spendono più in consulenze di quanto ricavino  dalle poche migliaia di  bottiglie. La burocrazia è nata da un lato,  per ostacolare i disonesti che comunque aggirano gli ostacoli, e le associazioni sindacali non aiutano. Uiv e Federvini non hanno mai chiesto una semplificazione vera nei fatti. Basta! Gaja non ne può più.

Luigi Tecce , poche migliaia di bottiglie artigiane e tante carte

Le ultime battute Gaja le riserva ai cambiamenti del mondo della comunicazione, al fondamentale ruolo di internet, al prolificare del fenomeno bloggers che se da una parte,  può mettere in difficoltà i produttori e i ristoratori, costituisce dall’altra, una grande ventata di libertà. Io stesso – conclude Gaja – li utilizzo intervenendo qua e là e trovo, anzi, che i miei colleghi  produttori, dovrebbero essere più presenti, intervenire, aprire dibattiti, comunicare, interagire.

6 Commenti

  1. Interessantissimo resoconto. I suggerimenti che Gaja da ai piccoli produttori mi sembrano veramente validi. A volte infatti, noi semplici appassionati, leggiamo di magnifici vini che sono poi quasi impossibili da trovare in enoteca. FAR BENE E FARLO SAPERE è il principio che dovrebbe ispirare tutti gli artigiani che magari fanno deglii splendidi vini che restano sconosciuti a chi, come me si interessa al vino per semplice passione.

  2. Gaja è un barbaro. Come i barbari si muove scartando di lato, marcando sempre differenze, diversità, che non significa evoluzione, ma ricerca del diverso rispetto a prima. Lo ha fatto Gaja, lo ha fatto Mondavi e anche Parker. Come i barbari pretende movimento, cerca e trova varchi d’accesso nella grande muraglia, consiglia artigianalità, spontaneità e diversità, come i barbari accetta e persegue la memoria, mentre disdegna il passato: la memoria attraverso gli scarti laterali della mente, attraverso l’immaginazione e l’intraprendenza è creatività, il passato fine a se stesso è museo senza fertilità. Gaja è barbaro, ma per nulla imbarbarito: sembra sempre guardare dall’alto, avere idee e progetti anche di movimenti di battaglia, di successione di ondate delle truppe, ovviamente veloci e a cavallo. L’incontro tra memoria e intraprendenza, determina quel tanto di creatività barbara che è narrazione, racconto. E l’invito a raccontare, al coinvolgere, all’istrionismo mi sembra una esortazione, non solo barbarica perché spiazzante, ma anche decisamente rivolta al futuro: la comunicazione che sostituisce l’espressione. L’immobilismo non fa per lui.

  3. già, svegliare chi dorme. Angelo Gaja ha dichiarato candidamente la sua età, ma è un ragazzo, un giovanotto che dà punti a molti in italia e che ci ha insegnato CHE IL VINO DEVE AVERE LE GAMBE, non basta stare seduti ad aspettare che qualcuno venga dirti com’è buono il tuo vino. è stata una gran lezione anche per i comunicatori, opresunti, tali (il vento di libertà creato dalla nascita dei log) , davvero ho imparato in un pomeriggio un tesoro di pensieri, valutazioni e indicazioni da tenere sempre in mente per sapere sempre dove si è e dove si vuole andare. Grazie Mr. Gaja:)

  4. Sono lieto che Gaja abbia toccato un tema fondamentale, e cioè il grande handicap degli “artigiani del vino” italiani: l’ncapacità cronica, sub-culturale, di “fare sistema”, di fare squadra”. Ci voleva proprio una bella scrollata da un “pezzo da 90” come lui! E’ ora che i piccoli con maggiore apertura mentale colgano l’invito al volo e si diano una mossa iniziando a lavorare in questa direzione.

  5. Una serata indimenticabile per la Campania. Leggo con molto piacere questo resoconto. Grazie mr. Gaja.

  6. Che fortuna aver potuto prendere parte a tutto ciò…
    Concordo sulla necessità di fare quadrato per i piccoli produttori. Mi viene in mente l’esempio delle formiche che si stringono tutte insieme a formare una zattera per sfuggire alle inondazioni. Purtroppo la mentalità provinciale di coltivare il proprio orticello senza badare a ciò che c’è intorno e che ancora è troppo largamente diffusa nelle coscienze di tutti noi del sud, ci pesa come una palla di piombo al piede…Mi rendo conto che è dura unirsi, ma non è un’impresa impossibile.

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