Gesualdo, La Pergola


Via Freda
Tel. 0825.401435
[email protected]
Chiuso il mercoledì, aperto solo la sera. A pranzo su prenotazione
Ferie a novembre

La spinta presente tra i giovani delle zone interne a migliorare, a cambiare, mi riporta in questo spazio immerso nel verde sorvegliato dall’alto dal castello di Carlo Gesualdo, residence e piscina. Una ventina di anni fa ci capitai quando era stato fondato come circolo Arci, altri tempi di speranza e fermento, ora ci torno e lo riconosco per trovare Franca e Antonio De Filippis che lo hanno rilevato aprendo una trattoria di cui subito si sono innamorati Luigi Cremona, frequentatore di Mirabella Eclano durante le feste di Natale, e Carla Capalbo, trapiantata a Nusco per scrivere il suo bel libro sulla Campania da mangiare. Con queste presentazioni, le recensioni lette e il tam tam degli amici, non ho avuto molti dubbi sull’ennesimo segnale positivo di radicale rinnovamento della gastronomia irpinia degli ultimi tre, quattro anni. Il ristorante è arredato sobriamente, il genius loci è invernale con la sala accogliente pronta a riparare dai gelidi freddi provenienti dai Balcani, mangiare sotto il pergolato di vite canadese è però un piacere durante la bella stagione. La formula è sempre la stessa, che ritroviamo in altri locali della provincia di Avellino capaci di proporsi all’attenzione del pubblico colto e della critica: sapori tradizionali, ricerca delle materie prime, esaltazione della biodiversità (leggi ad esempio la passata di fagioli quarantini qui speziati con l’origano), presentazione alleggerita dei piatti, miglioramento del servizio e aggiornamento. In questi luoghi il mio consiglio è quello di saltare il primo di pasta che non vede la tradizione irpina, come quella lucana e sannita, particolarmente originale o brillante rispetto al resto del Mezzogiorno, meglio la polenta o le zuppe montanare di castagne e fagioli per poi puntare decisi sul tridente d’attacco: verdurine dell’orto, baccalà e carne. Per quanto riguarda le prime non c’è limite ai piatti di territorio, parlerei di cru familiari, qui cito le patate con i cucuzielli e il sedano o il cestino di verza e fagioli quarantini. Il baccalà ha una grande tradizione in Campania perché, sia a Napoli che all’interno, era l’unico modo per mangiare pesce, il piatto forte di magra. Qui lo abbiamo provato come carpaccio. Bene, benissimo, la carne, con l’agnello delle transumanze, la faraona e il maiale, tutte bestie allevate in zona e certificate i cui piatti, pensiamo al cosciotto di agnello cotto nel fieno o alla tasca ripiena, valgono da soli il viaggio e l’abbinamento con un buon Taurasi della zona. Ai pastaioli incorreggibili consigliamo i cicatielli, piccoli gnocchetti tipici dell’Irpinia, con il ragù. Non mancano alcune idee, è il caso di dire l’uovo di Colombo: si propone allora l’ovetto di chicchirinella, come le nonne chiamavano le galline per far divertire i nipotini, bello fresco, di giornata, cotto alla coque e servito con una salsa di stagione. Si tratta di ricette della memoria, introvabili altrove, che segnano un locale e lo fanno ricordare per la capacità di proporre qualcosa di estremamente semplice che tutti hanno visuto e che adesso non hanno più se vivono in città. Subito infatti mi è balzato alla mente l’uovo fritto con i peperoni cruschi proposto da Laboratorio Divino di Potenza: quante tonnellate di farfalle al salmone o di linguine ai frutti di mare in alta montagna sono state cucinate nei rampanti anni ’80 nei ristoranti di paese? Mi viene il mal di stomaco solo a pensarci, ma per fortuna il Medioevo gastronomico sta volgendo alla fine nonostante l’ignoranza papillosa generata dalla tv sia ancora diffusa. Per chiudere, formaggi e dolci della casa, sui vini i ricarichi sono onesti con Taurasi non banali. Il tutto per 25-30 euro.