Un bicchiere per due / Cinque Terre 2012, Forlini Cappellini


Manarola

di Fabrizio Scarpato

Tutto cominciò quando vide sul telefono che s’era fatto una foto, da solo. Un selfie, disse lui ridacchiando. Un coglione, rispose lei sbuffando. Finì che la loro vita fu scandita dallo smartphone di lui, dalle sue risate ottuse, dalle foto fatte persino alle calamite appiccicate al frigorifero, ma soprattutto da quel fischiettìo stronzissimo che annunciava risposte o sollecitazioni di altri dementi come lui. Si era chiesta da dove potesse scaturire questa fame di visibilità, questa necessaria prova di esistenza in vita, o peggio di ricerca di un ruolo da protagonista a poco prezzo, evenescente come una bolla di sapone, solubile come il peggior caffè in bustina.

Una sera le venne in mente un film in cui Susan Sarandon appoggiata con disincanto al bancone di un bar domandava perché la gente alla fine si sposa: “per avere qualcuno che possa testimoniare della tua vita, perché non venga dimenticata, cancellata” era stata la risposta. Ecco lei era stata soppiantata dalla rete, da un telefonino, da una comunità indistinta sicuramente meno impegnativa del matrimonio, certamente illusoria. Per questo decise di non arrendersi e pensò di preparare una cena, nonostante tutto.

Stappò una bottiglia di Cinque Terre che avevano comprato l’estate prima a Manarola: il vino era una di quelle passioni che li aveva accomunati in un tempo che sembrava preistoria, e quella bottiglia era piaciuta perché diritta e sincera, tagliente come molte facce di quei luoghi, come le coste, le rocce, le prospettive offerte dalle Cinque Terre a chi come loro aveva voluto camminarle col respiro in affanno. Lo ricordava come un vino classico, impermeabile ai voli pindarici, radicato alla sua terra, ma non per questo meno pieno e confortevole nel sorso, anzi in quel momento avrebbe desiderato potesse essere una sorta di robusta ancora di salvezza, proprio perché era stato capace di farsi ricordare.

Cinque Terre 2012, Forlini Cappellini

Eccolo nei bicchieri col suo giallo tenue striato di riflessi verdi d’acciaio, il profumo ventoso di sale e intenso di mela e pesca bianca, graffiato dolcemente dall’agro di un mandarino e dallo spunto forte delle ginestre. Lui non disse niente ma sembrava contento, con l’espressione ebete di chi è ormai avviluppato nelle proprie manie: e cominciò a fare foto, al vino e alla bottiglia, condividendole subito con altri strippati, mentre la moglie ormai disillusa era lì di fronte a lui, col bicchiere della sua esistenza sul punto di traboccare. Allora il vino non era più un pretesto, ma il testimone, il notaio che sanciva la fine di un amore.

Ma lo bevve con tranquillità, come pervasa da una nuova consapevolezza: fresco e sapido, ed era tutto dire, a partire dalla salivazione accattivante, mescolata a una tensione fruttata in equilibrio con stuzzicanti piante aromatiche, la salvia, forse l’alloro. Lo ricordava più persistente in quella bottiglia datata duemilaundici bevuta in un caruggio sulla ferrovia, masticabile e gessoso, con cenni idrocarburici. Evoluzione, chissà. Avrebbe voluto essere come quel vino, fregarsene di tutto, mutare e crescere aggrappata alla propria vita, alla propria identità.

Fu così che, mentre il marito continuava a specchiarsi in internet, lei se ne andò, non prima di aver messo nella borsa anche l’ultima bottiglia di Cinque Terre: se lui non aveva più niente da ricordare, lei non voleva dimenticare. E chiuse la porta, mentre un fischiettìo insolente echeggiava dalla camera da letto.

 

 

Citazioni da “Selfie” di G. Romagnoli- La Repubblica RCult