Il maialino nero casertano


di Manuela Piancastelli*

Il ragù io lo faccio così: in una grande “caccavella” (ossia una pentola larga e non troppo alta) di terracotta metto a rosolare con olio extravergine e un po’ di sugna purissima (ideale quella derivante dal grasso “duro” della pancia del maiale) un abbondante trito di cipolla. Quando la cipolla si è imbiondita, si aggiunge un barattolo di “conserva” di pomodoro (si ottiene dal passato di pomodoro messo per alcuni giorni ad asciugare al sole forte di fine agosto, in un piatto molto largo, fino a consistenza cremosa: fondamentale, dà il gusto dell’affumicatura) e si calano i pezzi di carne: tracchie (ossia le costole) di maiale; cotiche di maiale (la pelle pulita e preparata ad involtino imbottito con un trito di aglio, prezzemolo, uvetta passa e pinoli); un pezzo di “coperta del macellaio”, ossia la pancia di vitello (detta del macellaio in quanto il venditore cercava di non darla a nessuno per farsi un buon ragù a casa sua); consiglio anche l’aggiunta di un pezzetto piccolo di salsiccia di polmone, ottenuta insaccando (e poi seccando) le frattaglie e le carni residuali sporche di sangue. Quando i pezzi di carne hanno preso colore esternamente, si aggiunge un bicchiere di vino bianco secco. Sfumato un po’ il vino, si aggiunge molto passato di pomodori, il sale, il basilico, un paio di chiodi di garofano e comincia la lentissima cottura. Occorrono due giorni per fare un buon ragù: se si inizia il pomeriggio del sabato, ad esempio, la cottura viene ultimata la domenica mattina. Il passato di pomodoro deve ridursi di circa un terzo in sette-otto ore complessive a fuoco lentissimo perché il ragù deve “pippiare”, ossia bollire pianissimo, emettendo il caratteristico suono: plop, plop. Dopo 3-4 ore di cottura, si spegne il fuoco, la terracotta mantiene il calore per alcune ore continuando proseguendo, di fatto, lentamente la cottura. La mattina seguente si riaccende il fuoco e si completa “il servizio” aggiungendo, se occorre, un po’ di acqua calda. Il ragù è cotto quando assume il classico color mattone e si apre, con la cucchiarella di legno, come il mar Rosso davanti agli egiziani. Nel senso che non si richiuderà subito (permettendo quindi il passaggio dei suddetti) perché la sua consistenza – più solida che liquida – non glielo permette. In questa fase il grasso si è completamente separato dal sugo e pertanto, consiglio per gli stomaci debosciati dei nostri giorni, si può anche sgrassare. Le carni sono così cotte e morbide, che le ossa si staccano senza alcun problema. Provare per svenire di piacere.

Perché cominiciare un pezzo parlando del ragù? Perché del “raù”, mito e rito della mia Napoli, piatto di derivazione etimologica francesce (da ragout, intingolo che invita a gustare di nuovo) ma di salde radici partenopee, simbolo della festa godereccia, il protagonista assoluto è lui, il maiale. Che, fino a cinquant’anni fa, in Campania era nero. Lo chiamavano tianello (da Teano) o pelatello (perché non aveva peli) e veniva dalla provincia di Caserta anche se per comodità di identificazione geografica era conosciuto pure come “Napoletano”. Era scuro, senza peli e aveva le caratteristiche “sciacquaglie” ossia dei bargelli ai due lati del muso che portavano il nome (o addirittura lo hanno dato, non so) dei vistosi orecchini da donna – il nome deriva dallo spagnolo chocallos – che, appunto, pendevano pesanti intorno al viso delle donne. Moriva quando le ghiande non cadevano più a terra, con un rito di sgozzatura cruento e spettacolare che trasformava la morte in festa contadina, e si reincarnava in prosciutti, salami, capicolli, lonze, sopressate. Ancora oggi l’uccisione del maiale è un momento di grande partecipazione nelle famiglie contadine, rito di abbondanza, sottolineato dal grande pranzo a base di carne (di porco, of course) fritta con le “papaccelle” (peperoni tondi piccoli e conservati nell’aceto) e con le patate.

Maiale nero, dicevamo. Come scriveva Ezio Marchi nel 1897, la migliore razza italiana era “la Napoletana con manto bruno-rame, senza pelo, di piccola e mezzana statura, ossatura fine, gambe robuste, discreta precocità, attitudine all’ingrassamento”. E’ stato proprio il suo grasso a condannarlo: in una società opulenta e obesa, la sua pinguedine, leggi sugna, faceva paura. Eppure fino agli anni ’50, lo ricorda bene Anna Maria Martone, figlia e nipote di macellaio, titolare della Bottega Buona di Vairano Patenora – in quella parte del Casertano che tocca con un dito il Molise – era il grasso del maiale che valeva, non la carne. “Era faticoso per mio padre Giovanni vendere la carne prima che non fosse finito tutto il grasso – ricorda – tant’è che mio nonno Eugenio Falcone, titolare di un’altra macelleria in paese, pur di bilanciare questo grave squilibro nella vendita, mise una regola nella vendita della carne suina della propria macelleria: chiunque acquistasse 10 chili di lardo doveva comprare anche 3 chili di carne, altrimenti si rischiava di vendere tutto il grasso (allora utilizzato come unico condimento e conservante di basso prezzo) e di non vendere affatto la carne stessa”.

A raccogliere questa testimonianza, cinquant’anni dopo, è stato il figlio di Anna Maria, Gianluca D’Arezzo che ha fatto del recupero del maiale nero casertano e della tradizione vairanese della concia delle carni (non a caso la parola vairo significa appunto maiale), uno dei principali obiettivi della sua ricerca. “Il mio sogno è che questo lavoro sia continuato da D&D, dice scherzando sui nomi dei figli Daria e Davide. Anche da parte di papà, Gianluca ha un albero genealogico pieno di proprietari di “botteghe lorde”, come una volta si chiamavano i negozi dei macellai, così che il nome dell’azienda, oggi, ripete solo in parte quello antico, passando da “Bottega lorda” a “Bottega buona”.

Sapori eccezionali riscoperti grazie all’amore della tradizione ma già segnalati dal “peripatetico” maestro degli enogastronomi, Luigi Veronelli, quando nel ’60 parlò, nella Guida all’Italia piacevole, della “salsiccia alla sugna di Vairano”, del “salame nero” di Baia e Latina, delle “salamine” di Piedimonte, delle salsicce di bufalo e di quelle di polmone di Capua. La famosa salsiccia di Vairano nasce conciando la carne di maiale con la salsa di peperoni dolci (papaccelle), una tecnica simile a quella silana, in Calabria e nel conservarla, terminata l’essiccazione, sotto sugna. Come si capirà, siamo in pieno Elogio del porco, di bernesca memoria. A Vairano Patenora non è un caso che il patrono sia S. Bartolomeo, protettore dei macellai, un tempo chiamati “buczarii” e poi “buccerii” e infine “beccai”, come dimostrano testi dell’anno Mille. Altro santo “vicino” al maiale era Sant’Antonio in occasione della cui festa, il 17 gennaio, veniva scannato un animale allevato in libertà, per l’intero anno precedente, da tutto il paese e per l’occasione venduto all’asta e poi ucciso. Ancora oggi in località Greci di Vairano, in via Sant’Antuono, esiste un’effige del santo, su maiolica, con accanto un maialino. Due figure chiave, nella vita del maialino, erano il “crastapurcelle”, ossia colui che lo castrava nel momento e nei modi giusti (pena la carne maleodorante) e il “purcaro”, ossia il pastore che portava al pascolo, liberamente, le bestie. Nel ricordo del papà di Gianluca, Filomeno, vive ancora “Annibale ‘o purcaro” il quale, negli anni ’50, portava a pascere le bestie che la sera rincasavano da sole nelle rispettive stalle. Animali che crescevano forti e grassi al punto che ancora si ricorda, nella famiglia d’Arezzo, un maiale di ben 500 chili. Ma il grasso era una ricchezza, un condimento generoso e necessario in una dieta povera di proteine animali.

E se nel 1660 si contavano a Vairano, a conferma della netta superiorità anche numerica di queste bestie, oltre mille porci contro le 600 pecore, le 200 capre e le cento vacche, oggi non è più tanto facile trovare quei maiali neri così pregiati. E’ questo il senso della battaglia di Gianluca d’Arezzo, che prima di altri ha intuito che in quel nero antico c’era la chiave del futuro, del giovanissimo Consorzio degli allevatori di razza suina casertana e degli studi che l’università sta conducendo sulla razza cercando anche di fare una impegnativa quanto difficile selezione genetica. Necessaria perché da un secolo gli incroci hanno “imbastardito” la razza. Come scrivono Flavio Birri e Carla Coco in “Sua maestà il maiale”, il Nero casertano (o napoletano) fu incrociato all’inizio dell’Ottocento con le razze inglesi Berks e Yorkshire. Furono lord Barrington prima e lord Werstern dopo, ammiratori del Nero, a esportare in Inghilterra il maiale casertano. Ma nel frattempo si contraeva, anche in Campania, la presenza di capi neri. Arrivavano le razze bianche, più facili da allevare, praticamente onnivore (il nero mangia ghiande e ama pascolare) e stanziali e nel tempo iniziarono incroci su incroci, tanto che è difficile, spiega Gianluca d’Arezzo, trovare capi puri, con tutte le caratteristiche originarie della razza.

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Vairano Patenora è un borgo molto bello, fuori da tutte le rotte turistiche pur essendo passaggio obbligato – ricade nel suo territorio l’uscita autostradale di Caianello – per l’immenso traffico, sia da nord che da sud, diretto a Roccaraso.

A Vairano, il 26 ottobre 1860 in località Taverna Catena, fu sancita l’Unità d’Italia con la storica stretta di mano tra Giuseppe Garibaldi e re Vittorio Emanuele II. Un breve fulgore di gloria mediatica, poi più nulla. Eppure il paese è bellissimo: si snoda nel suo percorso medievale intorno e ai piedi di un imponente castello del IX secolo e conserva traccia del passato nelle case che si inerpicano lungo scale di pietra bianca e incrociano, in ordine, la chiesa e poi il castello. Vairano è una terra di eccellenza enogastronomica: da qui è partita la riscossa del maiale nero casertano, una delle prime denominazioni comunali della Campania (purtroppo rimasta lettera morta, la de.co. è stata deliberata ma non è mai diventata operativa), grazie ai “profeti” della Bottega Buona che credevano in questa grande intuizione veronelliana. E a ristoratori che hanno creduto in questo straordinario prodotto. A cominciare da chef ormai “cult” come Renato Martino del Vairo del Volturno e poco distante, a Pietravairano, Bernardino Lombardo de La Caveja continuando per l’emergente Antonio Ruggiero della Fortezza Normanna, ancora a Vairano.

Distretto di eccellenza e di tradizione. Qui Maria Concetta e Roberta Creta, due sorelle vulcaniche, piene di entusiasmo ed eredi della tradizione casalinga di conserve fatte in casa, hanno realizzato con la “Credenza” un piccolo ma straordinario laboratorio di delizie: marmellate, sott’oli e conserve tutti rigorosamente realizzati coi prodotti dell’orto di casa (lì hanno messo la mamma al lavoro), pomodori e peperoni secchi, gelatine di vino (ne fanno di straordinarie col mio pallagrello bianco e nero) e persino gelatine di birra, melanzanine e peperoni imbottiti.

“Abbiamo iniziato nel ’98 – spiegano Maria Concetta e Roberta Creta – nella consapevolezza che il buon cibo è un veicolo che riconduce dolcemente l’uomo alla natura in modo semplice ma autentico. Essendo noi due amanti della buona cucina e delle nostre tradizioni abbiamo trasformato l’hobby in laboratorio artigianale”. Va da sè che nei barattoli della Credenza non ci sono conservanti chimici. Ma tanta fantasia: ne fa fede la marmellata, particolarissima, di zucca e limone.

Vairano Patenora val bene un piccolo tour, passando anche per la piccola azienda agricola Verticelli che produce le deliziose peschiole, pesche raccolte prima della maturazione e conservate in agrodolce. Un distretto gastronomico straordinario, dove vengono lanciate sfide coraggiose: come quella di Antonio Ruggiero, patron del ristorantino Fortezza Normanna, ai piedi del castello. Antonio da qualche anno sta “lavorando” sull’olio extravergine proponendo degustazioni di olio come aperitivo e mousse all’extravergine (a parte vi proponiamo la ricetta). “Per aperitivo – spiega – s’intende una bevanda sorbita prima di mangiare per secernere i succhi gastrici e favorire la digestione. L’olio extravergine induce questo effetto per la ricchezza di polifenoli”. Una sfida anche ai produttori di olio extravergine del territorio ad abbandonare le cultivar “omologate”, leggi frantoio e leccino, in favore di quelle tradizionali.

Chi l’avrebbe detto, fino a qualche anno fa, che Vairano sarebbe diventata così importante?

* Questo bellissimo reportage è pubblicato sul numero 85 della rivista EV edita da Veronelli Editore. Un grazie a Manuela che mi ha autorizzato ad inserirlo nel sito.