La biodinamica e il vino che non c’è, l’armonia e il problema della paura



di Fabrizio Scarpato

Vancouver, febbraio 2010. La caduta dello zar è un tonfo da guerra fredda, come l’espressione degli occhi di Plushenko davanti a una banale medaglia d’argento. Ha vinto Evan Lysacek, di un ghirigoro, di un niente. Due esercizi perfetti, ma ha vinto l’americano. Lysacek ha imparato la grazia, ha affinato la capacità interpretativa, ha studiato gli uccelli nel cielo di Toronto. «Hanno ali morbide, muovono il collo con agilità, sono flessuosi quando volano».


La Spezia, febbraio 2011. Saverio Petrilli confessa di guardare le stelle, di non farci caso più di tanto, ma che gli piace avvertire un senso di comunione con la natura. E’ un enologo e agricoltore biodinamico: guarda le foglie delle vigne, affonda le mani nell’humus umido, ne studia gli equilibri per cercare una sintonia con la forza del sole, dell’acqua, della luna. Sembra ci si senta liberi e sollevati a lavorare il vigneto: l’infinito sviluppo dell’apparato radicale secondario, consente alla pianta di conservare memoria del terreno, del luogo, l’immutata capacità respiratoria delle foglie consente al sole di avviare la fotosintesi.
Effetti della luce: forse anche la corteccia sensoriale secondaria dell’uomo se ne giova, immagazzinando emozioni.


Evgenij Plushenko non si dà pace: il più grande pattinatore di tutti i tempi umiliato, lui lo zar, l’atleta, sconfitto da un ballerino. Solo Plushenko è stato in grado di eseguire un salto quadruplo, un balzo con quattro piroette prima di toccar terra possibilmente ostentando grazia e morbidezza. La pressione gioca brutti scherzi, dice Lysacek, non ritenevo utile inserire il salto quadruplo nel mio programma, troppo rischioso, e io volevo l’esercizio perfetto, armonioso. Più che un ballerino un attore dell’Actor’s Studio, uno che vive con gli uccelli per volare come loro, che affina i gesti nelle mute foreste canadesi, che impara a trasmettere emozioni allenandosi con una prima ballerina del Bolscioi. Immedesimazione contro forza esplosiva.
Fa male vedere foglie scure cariche di sali che rifiutano la luce, fa male abbassare le rese, veder falciata la pianta, buttarla giù per consentirle di continuare a vivere. Fa bene sbagliare, fa bene capire, fa bene ricominciare. Andrea Kihlgren ha imparato a guardarsi intorno, allargando il senso e i confini della qualità. Solo buttandosi a capofitto si può fare vera agricoltura, il lavoro nei campi come esercizio di scelta, di volontà, di assunzione di responsablità. E non è poca cosa: fare da soli, senza delegare, senza saltare con piroette acrobatiche i passaggi necessari al sostentamento del vigneto.
Eppure avevo paura. La mia testa era sempre lì, all’esercizio che dovevo fare.

Angoscia, equilibri spezzati che solo la fiducia in me stesso, la ripetizione ossessiva di quell’esercizio hanno consentito di superare. Lysacek ricorda di non aver sbagliato nulla in quella prestazione perfetta. Senza paura.
Io non voglio avere paura. Petrilli lo ripete più volte: paura della pioggia, paura del sole, paura delle malattie, paura per la terra, paura per gli altri. Non ho paura se ho cresciuto una pianta forte e resistente, non ho paura se mio figlio è cresciuto abbastanza ed è abbastanza forte per arrampicarsi su un ciliegio, ne avrei di più se sapessi che non è in grado di farlo. Lavoro, conoscenza ed esperienza costruiscono la buona agricoltura, e se l’agricoltura è buona sarà buono non solo il vino che ne verrà, ma anche la vita stessa, l’umore e la qualità della vita. Di tutti.

Il vino che verrà. Conosciamo quei vini muscolosi e tonici, concentrati di polifenoli e aromi che non sono appartenuti alla pianta, che la pianta non era in grado di dare. Vini costruiti, molto di testa, come Plushenko. Conosciamo anche quella espressione un po’ così, di fronte a certi vini a prima vista e a primo naso fuori dai canoni consueti: quello sguardo tra l’accusatorio e il rassegnato dell’esperto, che, con ben dosati movimenti del sopracciglio, inchioda il malcapitato alle sue mancanze: è un biodinamico, perbacco.
Ah bè, purché sia strano e controcorrente, alla Lysacek.

Saverio Petrilli

Spinte e mode di mercato: a me basterebbe che ogni vignaiolo presentasse il proprio vino e col vino le proprie idee, le proprie manie, i sogni, gli interessi. La propria vita, senza etichette. Mi piacerebbe si facessero vini, anche nuovi, di carattere, scontrosi o scorbutici, si portasse la gente in cantina e si rispettasse l’ambiente: vorrei si potesse parlare di vino, possibilmente buono, senza distinzioni che verrebbero subito strumentalizzate, esibite e in un attimo fagocitate, come tutte le mode.
I vini di Petrilli e Kihlgren sono belli nei colori, cristallini nel bicchiere, si distinguono per ventosità e profumi, non sgomitano, né esteticamente, né per originalità a tutti i costi. Non portano casacche. Ma è agricoltura biodinamica (Alex Podolinsky è il mentore che ritorna, tra pensieri e parole di Petrilli), e sarebbe buona cosa esser coerenti in cantina rispetto al lavoro fatto nei campi. Ma entrambi usano la solforosa, per esempio, quanto basta, il minimo indispensabile, fuori da ogni manicheismo. Il minimo indispensabile.
Mettendo una qualche zeppa nell’elica che frulla il senso delle cose verso l’esteriorità dell’apparire, i due vignaioli sembrano credere alla centralità del vino, nel vino ripongono il senso del loro lavoro: mi piacerebbe lo facessero per se stessi, al di là delle etichette e dei nomi.
Un vino deve essere buono e non è buono perché biodinamico, anzi il vino biodinamico non esiste, esiste l’uva biodinamica.

Kihlgren mi spiazza: come novelli Druu dell’Undecima Torre (cit.) riscopriamo che il vino si fa con l’uva, che i suoi mille descrittori sono nell’uva da cui proviene: è uno scarto barbarico, un deragliamento di traiettorie, una nuova collocazione del senso. Che marca una differenza. Fare vino, con le mani, le braccia e il cuore, e per giunta farlo buono e bene: è una promessa difficile, valida per tutti, possibile, per chi vuole.
A questo punto poco importa se un pattinatore azzarda salti quadrupli in toeloop, se un altro si ispira, rapito, al volo degli uccelli e, in fondo, se un vignaiolo si sdraia tra le vigne a guardare il cielo stellato.
I vignaioli biodinamici che vogliono fare vino buono

Francesco Saverio Petrilli: Tenuta di Valgiano – Valgiano (LU)
Andrea Kihlgren : Az. Agricola Santa Caterina – Sarzana (SP)
Emanuela Audisio: I pattini d’oro di Lysacek – La Repubblica

5 Commenti

  1. “Un vino deve essere buono e non è buono perché biodinamico, anzi il vino biodinamico non esiste, esiste l’uva biodinamica”. Le stesse parole, filate, le ho sentite da Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach. E gli credo.

  2. Quello della biodinamica è un tema che mi ha appassionato abbastanza, adesso molto meno.
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    Quando mi appassionava sono andato ad ascoltarmi una conferenza di Nicolas Joly. Per capire, per sapere.
    Ho ascoltato tante cose interessanti, punti di vista diversi, intriganti e stimolanti. Ad un certo punto però sono saltato sulla sedia ed il mio sincero interesse si è di colpo trasformato in altro. Quando? Perchè? Quando Joly ha pervicacemente asserito che lo zodiaco avesse una diretta e non trascurabile influenza sul prodotto vino.
    Ora, io arrivo a capire le maree influenzate dalla luna, il magnetismo influenzato dalle tempeste solari ed altro ancora. Quello che non arrivo ad accettare, limite mio, è come un ammasso di stelle, distanti anni luce dalla terra e fra di loro, organizzate dall’uomo in un curioso percorso grafico tipo l’unione dei punti sulla Settimana Enigmistica, possa influenzare un prodotto dell’uomo.
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    Secondo me siamo quasi al credere fideisticamente che funzioni……ed io, com’è arcinoto, di fede ne ho ben poca.
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    Ciao

    1. Tutto nella norma sino a che non hanno voluto far passare difetti evidenti del vino per caratterizzazioni e caratteristiche tipiche. Ho sempre amato il senso filosofico dell’argomento, meno quello estetico con il quale ce l’hanno voluto propinare persino i benzinai :-). Ma oggi viè una gran consapevolezza, sopra e sotto le stelle, e meno male direi.

  3. “se ho cresciuto mio figlio forte e sano non devo avere paura della pioggia o del vento” tanta poesia, ma se quel vento diventa un tornado, se dal cielo cade grandine ed apre ferite profonde e lacera mio figlio, che fare curarlo? sanare le ferite o lasciare che muoia perchè la biodinamica può essere biomorte. Discorso lungo affascinante, ma come sempre sotto questo cielo nulla può essere assoluto.
    Forse una cosa sola è vera, se tutti facessimo biofilosofia oggi non ci sarebbe sovraproduzione di vino nel mondo!

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