Lambiccato nei monti Picentini


La rivoluzione vitivinicola italiana ha avuto sicuramente il grande pregio di rilanciare l’agricoltura di qualità e difendere biotipi altrimenti destinati all’estinzione. Ma in questo contesto sostanzialmente positivo non sono mancati preoccupanti fenomeni di omologazione dai quali sono stati escluse significative realtà produttive ridotte ai margini della commercializzazione e della critica enologica. Ed è ancora una volta il Sud, zona di produzione e non di traffici, a pagarne le spese come nel caso più eclatante di tutti, la crisi del rosato che segnava intere zone come il Salento e il Cirò in un bicchiere che doveva sempre essere rosso marmellatoso o bianco legnoso. Altra tradizione a rischio estinzione è il moscato perché nel Mezzogiorno continentale questa uva della festa contadina è stata estirpata con violenza anno dopo anno proprio come gli americani sterminavano gli indiani per conquistare spazio nelle grandi praterie. Qui la battaglia si è giocata sulle colline dell’Irpinia, del Sannio e del Cilento e sono ormai rimaste poche, ristrette, riserve dove si coltiva questa uva con risultati eccezionali, ricordo il Moscato di Baselice di Masseria Parisi e quello di Santiquaranta, la nuova azienda di Luca Baldino ed Enrico De Lucia. Sì, Luca, quello del Sidro di mele annurche e limoncelle che costituisce uno dei più originali fine pasto campani, adorato dall’alta ristorazione. Un prodotto molto simile, anche se in questo caso ottenuto dall’uva, è il Lambiccato di Giuseppe Longo che, dopo alcune incertezze produttive, ha deciso di puntare unicamente su questa antica tradizione della sua famiglia, insediata tra Bellizzi e Montecorvino Pugliano, ad un tiro di schioppo dal vigneto Montevetrano e dall’uliveto del Nido per intenderci, un terroir vulcanico di grande eccellenza con le colline sdraiate sulla piana di Paestum a prendere il sole vicino il mare. Il Lambiccato è in realtà mosto parzialmente fermentato e filtrato con cappucci di cotone secondo un metodo antichissimo che consente al tempo stesso di avere alti residui zuccherini perché ottenuto da grappoli raccolti ed essiccati, alcol a 4,5 gradi, tanto che nelle feste lo potevano bere anche i ragazzi, e soprattutto una sostenuta acidità a quota 6,5 che rende la beva non stopposa, ma gradevole e capace di richiamare il bicchiere sulle labbra per dissetarsi. Era infatti il Moscato della gioia domenicale e delle feste sotto i fichi e gli olivi dove ci si riparava dal caldo estivo. Giuseppe lo ha ripreso offrendolo sotto i dieci euro curando il packaging in modo sobrio, tale da ben figurare anche nelle tavole importanti, ennesimo squillo di tromba di una Campania contadina salita in cattedra e capace di stupire sempre con nuovi prodotti ripresi dal suo infinito repertorio antropologico.