Lettera dell’ispettore Michelin, l’Italia da Gualtiero Marchesi a Massimo Bottura


Cap Fréhel

di Fabrizio Scarpato

Stamattina tirava un vento bestiale sul promontorio di Cap Fréhel.

Mi chiama Routtier, da Cancale: “Un tipo non ha visto di meglio che buttarsi giù dalla scogliera. E’ roba tua, sembra sia di Trouville”. Il collega bretone sapeva che stavamo cercando un giovane scomparso da qualche giorno: l’avevano trovato.

In mezzo a un po’ di gente che da sotto il faro scrutava una flottiglia di catamarani appesi alle onde con lo sputo, un ragazzotto aveva tentato di farla finita. Solo che era piombato su un terrapieno sottostante, spezzandosi una gamba. Ai soccorritori era apparso frastornato e, prima di svenire, aveva frignato “volevo morire, volevo morire”. Due cose: la prima che coniugare il verbo all’imperfetto malcelava una elaborazione della disperazione alquanto repentina, la seconda che s’era fatto quasi trecento chilometri per ammazzarsi in un posto troppo bello, persino teatrale. In effetti me ne stavo lassù apparentemente pensieroso, col vento in faccia e l’impermeabile chiaro come nemmeno Jean Sorel in quel film di Visconti: intorno a me la macchia fitta e robusta, i colori cangianti, dal marrone al verde, dal viola al giallo; sullo sfondo il verde turchese del mare schiumeggiante. Bel posto per morire. Per di più, pare che il tipo sia una specie di musicista.

Sono negato per la musica, ma mi piace, di un’ammirazione devota, quasi succube: per questo non riesco proprio a comprendere come un musicista possa esser travolto da un buco nell’anima. Lui ha la musica per riempire quel vuoto, lui sa suonare, ha la compagnia di miliardi di note, di sfumature, di colori, di pensieri per trovare un senso alle cose, per tentare di mettere in fila il disordine. Non troppo diverso dai miei crisantemi, se vogliamo. Ma terribilmente più complesso.

Ta ri raashabadabadà shabadabdà…”: spesso, lungo le planches, mi trovo a canticchiare questo motivo, ma credo mi piaccia il jazz, forse perché l’improvvisazione accarezza il mio scombinato senso di libertà, forse perché il ritmo garantisce una protettiva precisione, non so, forse perché nel jazz ascolti, assorbi, vai via per la tangente, magari standotene al riparo in un angolo buio. Confortevole, in fondo. Senza sogni e smelensaggini, che non servono a niente.

Un giorno entrai da Babette a Le Chat qui Peche e sentii un pianoforte dal piano di sopra: un suono un po’ sgangherato, quel lieve ritardo dei tasti consunti, ma pur sempre una melodia, quale mai e poi mai sarei stato in grado di eseguire. Tra il velluto rosso un po’ fané, la signorina Paulette suonava assorta qualcosa di struggente, un tango, a essere precisi. Non si accorse di me e io restai due scalini dietro la porta ad ascoltarla: non volevo che smettesse, non volevo interferire nel suo colloquio con la musica. Annegai il complesso di inferiorità in un paio di Calvados e la aspettai fuori, incurante del puzzo di pesce. Non le ho mai detto che l’ho ascoltata, anche se fu solo per un attimo, per un interminabile minuto, quanto il mio cuore poteva tollerare, quanto il mio pudore poteva consentire. La signorina Paulette è insegnante di musica al Collège di Honfleur: non le ho mai chiesto di suonare per me.

Da Gualtiero a Massimo

Non ricordo più se cercavo notizie di jazz o una qualche ricetta per un pesciazzo che quel paraculo del pesciaiolo di Annette mi aveva regalato, ma ho letto che un cuoco italiano, bravino, ha ideato un piatto di pesce e l’ha chiamato Omaggio a Monk. Ho visto delle foto di un bianco e nero tanto denso e materico da sembrare colorato, e poi ho letto due righe di un tipo che pur menandosela un po’, parlava di un pranzo scandito dal ritmo, dai colori, da quella sensualità jazz che incide il cuore, obbligandoti a respirare col battito, finchè quell’idea in bianco e nero non era diventata essa stessa strumento. “Come d’incanto, sei capace di suonare: è Omaggio a Monk”. Cristo, è tutto quello che mi scombussola quando una musica mi piace: ti entra e suoni, da solo, tramortito dal contraccolpo emotivo, come dopo un placcaggio monstre di Sébastien Chabal.

Mi sono fermato a dormire nella Gendarmerie del Mont Saint Michel: per fortuna in giro non c’è un’anima, anche perché fa un freddo cane. E’ stata una giornata di merda e la serata è finita peggio. Non sono riuscito a divincolarmi dal collega Routtier, ha insistito per andare a cena alla Croix Blanche, qui al Mont. Poco male, anche perché avevo fame. Non abbastanza per sopportare i suoi ammiccamenti con la bocca a culo di gallina “Attenzione, attenzione, questo è l’ispettore Michelin…”, ma soprattutto perché mi ha scassato i camemberts con il rugby: la vittoria sfumata per un punto, la sfiga, e Dusautoir, e Harinordoquy… Allez les Bleus… Volevo rispondergli che questa nazionale è stata la peggiore degli ultimi cinquant’anni, ma ho cercato francescano conforto in un bel piatto di moules de bouchot piuttosto carnosi, mentrel’homard breton, poverino, non riusciva a capacitarsi del fatto che l’avessero portato qui anziché da Roellinger, dall’altra parte della baia.

Moules de bouchot e sidro

Destino cinico e baro: non risparmia nessuno, nemmeno gli astici. Mentre mi scolavo nervosamente una bottiglia di Muscadet sur lie, ho pensato tanto al buon Chabal, domandandomi con quale belluina presa avrebbe strappato le palle a quel rincoglionito poliziotto bretone.

Le Mont Saint Michel

Suppertime i’m feelin’ sad, but it really gets bad ‘round midnight.

Dalla feritoia della stanza non si vede altro che buio, forse nebbia, acqua, mare, fango, isola o montagna: non me ne frega niente, sempre una giornata di schifo è stata. Mi son bevuto un Calvados doppio, lo sguardo perso nel nulla, nelle orecchie i rutti e il cicaleccio del mio amico. Ma non sono tranquillo, qualcosa mi rode, e non sono i manifesti di Morgan Parra e di Lievremont coi baffetti. Quelli li ho girati verso il muro, ma ugualmente non riesco a prendere sonno. Ripenso a quel giovanotto e a quel cuoco italiano: la musica è curiosità e apertura verso il nuovo, ricerca di armonia, sempre diversa. Vita, insomma. Mi domando perché il primo ha fallito, mentre il cuoco è riuscito a toccare le stelle.

Ieri quando sono partito da Honfleur era una bella giornata di sole. Sicuramente son sbocciati i crisantemi bianchi, belli e semplici come grandi margherite. Domani ne poserò tre sul davanzale della finestra. Cazzo, mi manca tanto Paulette.

7 Commenti

  1. Grazie. Non so perché, ma mi ha emozionato molto e comunque è molto bello. Sarà che frequento quei luoghi, sarà che dietro alla musica, dietro a un merluzzo, davanti al mare, c’è sempre una storia; viverla e raccontarla dà il senso alla musica-mare-merluzzo, è il loro prolungamento logico-illogico, spesso solo emotivo, magari fugace, magari effimero, che sia un sorriso, una lacrima, o una pausa e va aldilà dell’istante in cui si fruisce del presente, ha un che di proustiano. La musica-mare-merluzzo, è tutto quello che c’è prima, nel desiderio di arrivarci, di toccare, di sentire, di gustare, è il momento che si cerca di trattenere, in bocca, nei propri brividi, nell’evocazione di ricordi, o immagini inedite, è quanto possiamo raccontare dopo, con i colori che ha suscitato in noi, nelle nostre piccole e intime lacrime e nel piacere che si ha nella trasmissione. Nella condivisione. Grazie per la condivisione, perché è un atto d’amore ed è far diventare oro la musica-mare-merluzzo, perché questo oro ci ha attraversati, proprio come l’amore. Merci beaucoup. Davide

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