Life of Wine, dieci vini italiani da invecchiamento


Schiopetto

Schiopetto

di Gianmarco Nulli Gennari
Inutile girarci intorno: uno dei parametri fondamentali per stabilire il valore di un vino è la sua capacità di durare nel tempo. I francesi lo hanno capito molto prima di noi, tanto che i prezzi delle zone di punta (Bordeaux, Borgogna, in parte Rodano) hanno raggiunto ormai la stratosfera. Bianchi inclusi.

Da noi le cose non sono sempre andate così. Anzi, a parte alcune etichette ormai entrate nel mito, le nostre denominazioni e i terroir più vocati, che non hanno nulla da invidiare ai cugini d’oltralpe, sono ancora distanti da certe valutazioni. Un bene, direte voi, visto che per bere un buon Barolo o un Brunello non è necessario accendere un mutuo, come accade ormai regolarmente con i vari Montrachet, Vosne Romanèe e Pomerol. Ma in una certa misura questa circostanza rischia di frenare lo sviluppo del vino italiano, soprattutto dei bianchi, visto che ancora in pochi hanno compreso che le nostre migliori espressioni (fiano e verdicchio in primis) hanno doti di invecchiamento ragguardevoli. È ancora frequente, invece, ascoltare i commensali del tavolo a fianco lamentarsi con i responsabili di sala del ristorante se il bianco consigliato è del 2013 piuttosto che del 2015. Come se fosse latte e avesse una data di scadenza.

Per tutto questo abbiamo seguito con grande interesse un’intelligente manifestazione ideata dallo Studio Umami, “Life Of Wine”, giunta ormai alla quinta edizione, allestita quest’anno al Radisson Blu Hotel di Roma. Una settantina di aziende hanno portato in assaggio diversi millesimi dei loro vini di punta, proprio per far comprendere agli appassionati ma anche e soprattutto agli operatori del settore le capacità di armonica evoluzione delle loro bottiglie. Un tentativo che in Italia non ha molti riscontri: ci viene in mente giusto l’ormai proverbiale lunedì del Merano Wine Festival con le vecchie annate. Un esperimento riuscito, al netto di qualche accenno di ossidazione riscontrato in alcuni casi (ma sempre riguardante esemplari oltre il trentennio di vita).

Noi comunque ci siamo divertiti e vi proponiamo la top ten dei nostri assaggi, in rigoroso ordine di apparizione. Partiamo dai bianchi.

  • Dosaggio Zero Franciacorta Docg 2010 – Colline della Stella. Singolare figura di vigneron in una terra, la Franciacorta, caratterizzata in massima parte da una produzione di stampo imprenditoriale, il giovane Andrea Arici elabora, dai suoi cinque ettari ai piedi del Santuario della Stella di Gussago, solo metodo classico non dosati, con una politica dei prezzi encomiabile. Il millesimato è un blanc de blancs (chardonnay) dotato di una fiera sapidità accompagnata al naso dalle tipiche note minerali e di crosta di pane, ma anche da toni agrumati e di nocciola. A Roma ha portato una mini-verticale comprendente 2013 e 2011, tutte di buon livello, ma questa annata, la più vecchia, è anche quella che oggi mostra maggior equilibrio: composto, completo, godibilissimo.
  • Collio Friulano 2009 – Schiopetto. Il marchio è quello di un grande patriarca del vino tricolore, un innovatore in vigna e in cantina, uno dei primi a valorizzare le potenzialità del terroir italico in tutto il mondo. Simbolicamente, da un paio d’anni la nuova proprietà (la famiglia Rotolo, già titolare della Volpe Pasini) ha deciso di ripristinare la storica etichetta gialla e la bottiglia renana “Schiopetto” ideata da Mario in persona. Qui abbiamo l’opportunità di assaggiare il “friulano” (leggi tocai) delle vendemmie più recenti, 2014 e 2015, ancora poco espansive ma raffinatissime e dotate di frutto (pesca, mandorla fresca) e polpa. Delle annate più vecchie, la 2007 ha affascinanti note quasi idrocarburiche, di pneumatico, e una beva larga e coinvolgente, salvo contrarsi un po’ in chiusura. Questo 2009, invece, presenta un lato decisamente affumicato all’olfatto ed è più preciso e agile al sorso, con una bella scia agrumata che riverbera in persistenza. Un bellissimo vino “a tutto pasto” (a meno che non scegliate una fiorentina o un formaggio a pasta dura…) che è il miglior esempio di bianco italiano capace di invecchiare felicemente, con grazia.
  • Onirocep Pecorino Falerio 2013 – Pantaleone. Uno dei pochi pecorino marchigiani ad aver raggiunto la notorietà fuori dalla Doc Offida. In realtà , come altitudine e come vicinanza geografica, siamo più vicini all’areale di origine del vitigno, visto che nel 1982 Guido Cocci Grifoni andò a ripescare questa varietà pressoché scomparsa in un vecchio vigneto ad Arquata del Tronto, in frazione Pescara (località oggi tristemente famose dopo il recente, devastante sisma). Qui non siamo vicini ai mille metri come sui monti Sibillini, ma intorno ai 450, spostati verso nord est, a cinque km da Ascoli Piceno e non lontani dal mare Adriatico. Eppure il pecorino della famiglia Pantaloni mantiene l’assetto salato e verticale dei più autentici vini di montagna. Soprattutto assaggiando il 2014, da vendemmia fresca e umida, che dato un prodotto piacevole, caratterizzato sia ai profumi che in bocca da un vero e proprio festival degli agrumi: pompelmo, mandarino, limone (succo e scorza). Il 2011 invece sente l’annata calda e vira verso toni più maturi ma fragranti di albicocca e pesca, lo stile è molto diverso anche alla gustativa, più orizzontale, molto dolce e ricca, con sentori minerali in chiusura, indice di maturità. Noi abbiamo preferito il 2013, dei tre il più agile ed equilibrato, fresco e grintoso, dalla invitante palette aromatica di fiori, agrumi ed erbe di campo e dal palato slanciato e succoso.
  • Alto Adige Sauvignon Castel Giovanelli 2007 Cantina Caldaro. Chiudiamo questa prima parte dedicata ai bianchi con un vino di stile internazionale, forse un po’ demodè ma realizzato con cura e precisione da una delle più importanti cooperative sudtirolesi. È un sauvignon blanc affinato in legno, grazie al cielo senza strafare. Certo, l’annata più recente, 2012, è ancora marcata da toni boisè e resinosi, anche se il varietale si affaccia con decisione (note vegetali di erba falciata, uva spina, frutta esotica). Ma basta andare indietro fino al 2009 per trovare un assetto già più centrato, con cenni minerali e di mela matura, sorso largo che ricorda un po’ lo stile classico alsaziano e finale sapido. L’edizione 2007 è al momento la quadratura del cerchio: naso molto ricco e compiuto, nel quale tutte le “voci” precedentemente individuate trovano dopo anni in vetro la giusta intesa per farsi “coro”; riesce ad occupare ogni spazio della cavità orale con un incedere armonioso. Bel bicchiere, teso, avvolgente, ricco di polpa dolce, davvero notevole. Il 2004 infine appare già terziarizzato e non particolarmente tonico, anche se riscatta la stanchezza dei profumi con una gustativa piuttosto sostenuta, segnata da un frutto maturo e dall’alcol; ferroso in chiusura, con peperone e marmellata di agrumi.
Castelgiovanelli

Castel Giovanelli

Castel Giovanelli

Castel Giovanelli

  • Umbria Rosso Igt Rubino 1995 La Palazzola. Stefano Grilli cento ne fa (di vini) e mille ne pensa. Dal suo quartier generale di Vascigliano, vicino a Terni, esce di tutto: bollicine (anche con metodo ancestrale) da riesling, pinot nero, sangiovese (!), cabernet sauvignon (!!!); tradizionalissimi vin santo da trebbiano o da sangiovese (occhio di pernice); uve autoctone bianche (verdello) affinate in anfora; rossi fermi di impostazione più marcatamente internazionale. Ed è proprio con una mini-verticale del suo taglio bordolese, il Rubino, che La Palazzola si è presentata al Radisson. Ma Stefano non si è voluto smentire e ha portato anche le stesse vecchie annate (1998 e 1995) di Merlot e Pinot Noir, “per far comprendere meglio le caratteristiche dei millesimi”. E infatti: i 1998 sono generalmente all’apice (stupefacente il Merlot), mentre i 1995, annata “più classica e complessivamente migliore”, ancora scalpitano e promettono un’ulteriore, felice evoluzione. Il Rubino, in particolare, è indomabile: sprigiona note affumicate, di prugna e tabacco, mette in secondo piano i classici sentori erbacei del varietale ed è disarmante al palato per complessità e purezza di frutto in un vino di vent’anni. Dimostra anche agli scettici (quorum ego) che la barrique, utilizzata a regola d’arte, non è il diavolo.
  • Barolo Castellero 1997 – F.lli Barale. Annata a suo tempo definita impropriamente “del secolo”, in Toscana ma anche in Piemonte, e che spesso invece ci ha lasciato diverse perplessità nei riassaggi successivi. Ma in questo caso non c’è discussione: si tratta di un grandissimo nebbiolo, colto in uno stato di grazia davvero raro. Stiamo parlando di un’azienda agricola familiare di tradizione più che secolare, attiva nel cuore della denominazione (la sede si trova proprio nel centro del paese di Barolo) dal lontano 1870, ma le cui radici affondano ancora più indietro, al ‘600. Le uve del Castellero, storico cru del Comune, arrivano anche ai cinquant’anni di età e giacciono su un terreno a prevalenza argillosa. Il 2011 è saporitissimo e un po’ largo, il 2007 è già molto classico, agile, con bei toni agrumati in persistenza, il 2003 ha un olfatto caratterizzato dalla tostatura dei legni e un sorso più rigido, con tannino un po’ ingombrante. Il 1997 possiede una grazia quasi borgognona. Naso ancora integro e non terziarizzato, legni nobili, agrume scuro, china e leggera liquirizia; bocca deliziosa, in perfetto equilibro tra freschezza e struttura, lunghissimo finale segnato da scorza d’arancia, ciliegie e goudron. Il 1985, infine, è segnato da una decisa terziarizzazione dei profumi, caffè e cassetto della nonna; recupera qualcosa alla gustativa, regge bene ma sembra proprio arrivato al limite.
  • Primitivo Gioia del Colle Mura Sant’Angelo Contrada Barbatto 2011 Chiaromonte. Dalla sua Puglia Nicola Chiaromonte propone ormai da anni uno dei Primitivo più sorprendenti, succosi e gastronomici di tutto il distretto delle Murge. Nasce da una piccola vigna di meno di un ettaro di vecchi alberelli. Ciliegia, cioccolato amaro, macchia mediterranea dopo la prima aerazione nel bicchiere, poi frutti di bosco, marmellata di susine, cenni pepati, balsamici e speziati (curry). Il sorso è teso e vivacissimo, con un’acidità da manuale che contrasta e minimizza l’esuberanza alcolica (siamo sui 16 gradi) della tipologia, invogliando al riassaggio. Sfodera una finezza e un’agilità, nonostante gli zuccheri, che fa pensare al famigerato paradosso del calabrone. Praticamente sullo stesso livello il 2012, solo leggermente meno fresco. Di grande livello anche la Riserva 2009.
  • Boca 2007 Le Piane. Per raccontare la storia di Christoph Kunzli e di come il suo arrivo dalla Svizzera a Boca abbia segnato la rinascita della denominazione, occorrerebbe un libro. Qui ci limitiamo a dar conto della consueta affidabilità, longevità e bontà dei suoi vini, a partire da un 2011 raffinato, profumatissimo di terra bagnata e balsami, preciso nell’estrazione tannica. Il 2009 è leggermente più ritroso all’olfatto, dai cenni speziati e rugginosi; ma al palato ha una marcia in più, succoso e salato, solo un po’ contratto e caldo nel finale. Il 2007 oggi è uno spettacolo: purissimo al naso, ebanisteria di essenze nobili, agrumi, anguria; in bocca spinge molto, ha energia e sapidità da vendere, la corrente acida regala una bevibilità irresistibile nonostante una mole non indifferente. Il 2006 potenzialmente potrebbe essere ancora migliore ma al momento è chiuso a riccio: si intuisce una materia ricca ma è consigliabile, per chi ne possiede una bottiglia, aspettare ancora qualche anno prima di stapparlo.
  • Chianti Classico Riserva 2006 Badia a Coltibuono. Ci era costato molto non includere questa bella azienda gaiolese nella nostra ricognizione sui sangiovese al Merano Wine Festival, ma lì avevamo scelto di privilegiare le annate più recenti. Qui possiamo finalmente dar conto del livello assoluto di questa riserva, tra le più costanti ed eleganti della denominazione e iper-classica, sia nell’uvaggio (sangiovese-canaiolo-colorino-ciliegiolo…) che nell’affinamento (solo botte grande per due anni). La producono, nella spettacolare abbazia fondata circa mille anni fa dai monaci vallombrosani, i fratelli Emanuela e Roberto Stucchi Prinetti, tra i primi in Chianti a credere nel biologico e ad applicarlo su una superficie vitata di ben 60 ettari. L’ultima nata, la 2012, è ancora molto rigida e potrà sciogliersi dopo qualche mese in vetro. La 2011 è molto più vispa, odora di fragolina di bosco, violette e incenso, e ha un sorso ben articolato; i dettagli sembrano tutti al posto giusto, tranne una lieve contrazione in chiusura, ma già oggi è golosa e saporita. Standing ovation per la 2006, che ritroviamo molto tonica dopo dieci anni, anche se con ulteriori margini di evoluzione: profumi nitidi di spezie, tabacco, cuoio, amarena; al palato sfoggia un’energia e una forza impressionanti, l’alcol si avverte ma è ben bilanciato da freschezza e sapidità, il finale è generoso e lunghissimo, ancora sul frutto. Un vino che trova magicamente la quadra tra finezza e potenza.
  • Ghemme Collis Breclemae 1983 – Antichi Vigneti di Cantalupo. Ci sembra giusto chiudere questa rassegna dedicata all’invecchiamento dei vini italiani con una bottiglia dalla veneranda età di trent’anni, ma con la grazia e la vivacità di una bambina. Ce la propone Alberto Arlunno, fine conoscitore del nebbiolo, qui vinificato in purezza, e ambasciatore appassionato di un terroir meno conosciuto di quanto meriterebbe, una fascia collinare formata dai depositi del ghiacciaio del Monte Rosa, ricca di sostanze minerali nel sottosuolo. Qui nascono vini dal passo lento ma sicuro del maratoneta, davvero capaci di evolvere a lungo e felicemente. Il 2007 ha uno spettro olfattivo davvero complesso, con tartufo e scorzetta d’arancia sul proscenio, e una beva equilibrata, ancora molto segnata dal tannino ma fresca e promettente. Il 2000 ha un naso più reticente poi escono il cuoio, la terra umida del sottobosco (e le sue radici), il caffè in grani; in bocca è più arcigno, snello, ferroso, dalla grande forza acida: una bottiglia meno pronta della precedente. Il 1997 ha dato un vino più dialogante e polposo, carattere insolito per i nebbiolo del nord Piemonte: balsamico (proprio profumato di liquirizia), speziato, succoso, morbido e piacevole, cui manca solo un po’ di slancio in chiusura. Il 1983 è semplicemente emozionante: di grande integrità all’olfatto, con fiori secchi, bacche rosse e nere, tabacco e sangue; spinge ancora molto al palato, è freschissimo ed elegante, armonico, sapido, attraversato da una corrente minerale che lo solleva regalandoci una persistenza memorabile.
  • Ghemme

    Ghemme

    Ghemme

    Ghemme

2 Commenti

  1. Confermo , bella manifestazione al Radisson , tutti ma proprio tutti i produttori disponibilissimi a dare spiegazioni utili sui vini e sopratutto a farti degustare quello che volevi senza storcere il naso , complimenti agli organizzatori di Wine For Life.

  2. Il mio sapere enologico ha subito una repentina accelerazione, grazie alla splendida opportunita’ di potere degustare ottimi vini descritti dai loro creatori. Ho focalizzato l’attenzione sul mio amato Piemonte, rappresentato da ben sette aziende. Ho concluso la degustazione con uno straordinario Barolo Riserva Bussia Vigna Mondoca 2004 di Oddero, un vero e proprio colpo di cannone in bocca, dalla persistenza inestinguibile! Continuare non avrebbe avuto senso, tutto il resto mi sarebbe sembrato come Coca-Cola…

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