Lo chef che non fa la spesa al mercato ricorda chi preferisce solo il sesso a pagamento


soldi

di Luciano Pignataro

Esibire un piatto di black code acquistato da un selezionatore di lusso mentre a dieci metri hai il mare dove si pescano merluzzi e ogni altro ben di Dio. Proporre un agnello già porzionato proveniente dalla Nuova Zelanda mentre nel tuo territorio ci sono i  pastori che rientrano con il gregge.
Ecco la morte della gastronomia. Una morte in una bara dorata. Di lusso. Ma sempre morte!

Tecniche uguali con prodotti eguali in ogni parte del mondo.
Una nuova forma di colonizzazione culturale, simile a quella tentata dalle catene di junk food internazionali, l’incapacità di capire che oggi più che mai si è grandi non solo con la tecnica ma con la selezione delle materie prime e con la spesa al mercato. Che non vuol dire solo chilometro zero, anzi.
Ma avere la capacità di cercare prodotti veri in prima persona

Credo che sia questa la nuova emergenza della gastronomia perché è chiaramente più comodo avere il cibo già porzionato senza dovere fare la fatica di cercarlo puntando sulla qualità migliore. Una volta può essere magari divertente, farlo ogni giorno per tutto l’anno diventa un lavoro.
Eppure è proprio questa la differenza.

Ed è così che in Italia troviamo sempre di più le stesse cose anche nell’alta ristorazione, dalla guancia di vitello alla pancetta di maialino croccante. E dunque gli stessi piatti. Che noia! Che noiaaaaaaa!

Ci pensavo parlando con Salvatore La Ragione e del suo impegno da Mammà a Capri, una delle isole dove è più difficile trovare materia fresca. Gran parte del suo lavoro è procurarsi cibo del territorio campano di qualità, dal pesce alla carne alle verdure.
E mi faceva l’esempio di come il costo del piatto possa essere ridotto proprio con un po’ di cultura e intelligenza. Una pasta con le zucchine vale mille maialini già porzionati, costa di meno e regala gioia.

Molto giovani cuochi pensano che si diventa famosi grazie solo alla tecnica, ai like su facebook e alle comparsate in tv. Forse sì, si può diventare famosi ma non si scriverà  mai una ricetta memorabile in cucina.

La differenza è la stessa di fare sesso a pagamento o con la persona di cui si è innamorati. Nel primo caso ci si può divertire, nel secondo c’è l’emozione.
Anzi, possiamo dire che pagando senza conquistare e sedurre ci si può alla fine annoiare proprio come il gourmet che trova sempre lo stesso black code in Val d d’Aosta, nel ristorante di sushi a Milano, o in un ristorante di una città di mare.
Alla fine si cerca l’amore, perché l’amore non può mai stancare.

Siamo stufi di mister Muscolo che non sanno più come si sfascia un capretto, come si sfiletta una triglia.
Basta.
La vera gastronomia deve ripartire da un messaggio di autenticità, di unicità e di bravura.
Tutti e tre i fattori fanno la differenza tra un cuoco, anche bravo, e un cuoco delle emozioni.
Tra una escort e la persona che sei riuscito a conquistare con fatica ma che alla fine è solo tua.

7 Commenti

  1. Qualche mese fa, generalizzando un po’, avevo fatto una specie di piramide con alla base gli all-you-can-eat cinesi/giapponesi e i bar a 10europranzocompleto che acquistano il loro cibo nei magazzini cinesi e nei peggiori discount italiani, poi risalendo si trovavano le trattorie che spesso riforniscono il magazzino nei centri di acquisto all’ingrosso o (visto con i miei occhi) negli ipermercati locali. Più su i medi ristoranti che, oltre ai soliti ingrosso, vanno pure alla Metro. Avvicinandosi al vertice arrivavavano i ristoranti stellati o simili: fra le altre forniture Selecta, Longino, Jolanda de Colò, ecc.. In cima i grandi ristoranti: ricerca del produttore locale, pescato locale, patate abruzzesi, mozzarella cilentana, ecc…
    Sbaglierò ma non credo di tanto… ;-)

  2. A fare molto (non tutto…) in casa servono almeno 2 cuochi in più – e cuochi bravi, che preparare la linea non è facile;
    e quindi costosi. Ovviamente devi poi aumentare i prezzi. Sisuro sicuro che i clienti capiscono questa logica?

  3. Questo post non vuol criminalizzare chi usa prodotti Selecta, Longino, Jolanda. Ci mancherebbe altro, sono ottimi e anche costosi. Ma sottolineare che l’emozione a tavola, oltre che dalla bravura del cuoco, non può che nascere dai prodotti artigianali del territorio che fanno la differenza. Forse per questo si diventa un grande ristorante.
    Poi a giudicare da alcune reazioni su Facebook, capisco che è questione soprattutto di cultura più che di tasca e che questa è una ferita aperta.

  4. Sono totalmente d’accordo con Pignataro, manca la cultura della spesa, della ricerca del prodotto: spesso i ristoratori cercano di ridurre il numero dei fornitori, come una qualunque azienda! Credo che oggi la cucina funzioni solo se riesce a trasmettere emozioni, cultura e valorizzazione del territorio anche se non è quello dietro casa. Bisognerebbe portare avanti la cultura dei mercati, cosa che in molte città italiane manca in quanto mancano i mercati di qualità: questa a mio avviso è la nuova frontiera anche per i consumatori.

  5. D’accordo su tutto, tranne sul fatto che io mi innamoro di tutte le escort… Ed è un casino…

  6. Gentile Sig.Pignataro, sì il problema della cultura è una ferita aperta. Sono una ristoratrice dell’entroterra ligure, zona povera di biodiversità e produzioni qualificate (eccellenze a parte come il miracolo di Varese Ligure, frutto della mente di un genio).
    Nella piramide di Leo, che trovo precisa, mi colloco tra i medi che per passione cercano di salire: spesa alla Metro e dai piccoli produttori locali.
    Vorrei proporre due spunti di ulteriore riflessione:
    siamo certi che locale e piccolo equivalga a qualità? Per mia esperienza diretta più spesso no che sì e questo a causa dei costi immani della burocrazia, sostenibili solo se spalmati su grandi produzioni. I sì però valgono sempre la pena della scoperta.
    siamo certi che all’uomo comune interessi tutto questo? La risposta è no. Altrimenti non si spiegherebbero le osterie che languono perché non possono dare cibo decente a 10€ e i “sushi-bar” strapieni.
    La piramide di leo evidenzia quello che secondo me è il nostro grande dramma: nel paese dove è nato il mangiar bene, frutto diretto dell’amore per se stessi e la propria terra, mangiare cibi genuini, sani, di qualità e legati al territorio sta diventando un’esperienza totalmente elitaria.
    Di chi è la colpa? Del sistema che fa di tutto per omologare, standardizzare; che ci propone i masterchef che sanno usare l’estrattore ma non distinguono la lombata dalla testina. E nostra, tremendamente nostra, che non facciamo sistema, non ci evolviamo, restiamo divisi e quindi imperati.

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