Monte di Grazia rosso 2007 Campania igt


MONTE DI GRAZIA
Uva: tintore e piedirosso (10%)
Fascia di prezzo: da 5 a 10 euro
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno

Monte di Grazia rosso 2007 Campania igt

Una degustazione inglese e riflessioni sui critica e vini-evento
In primo luogo vi offro questa degustazione di Jamie Goode, mi piace sempre l’apertura mentale con cui gli anglosassoni approcciano al vino

Amo questo vino che ho bevuto le scorse due sere. E’ uno dei miei vini dell’anno, credo. L’ho aperto per festeggiare la prima partita sotto la direzione di Roberto Mancini.
E’ di Tramonti, in alto su Amalfi in Campania, circa 45 chilometri da Napoli. Questo vino viene da 2,7 ettari di vigne distribuite su 5 appezzamenti con tralicci a tendone (una specie di sistema a pergolato con le vigne sostenute in alto, le foglie fanno ombra alle uve proteggendole dal sole caldo). Queste vigne sono antiche, hanno da 50 a oltre 100 anni, e non hanno innesto.
L’uva principale è il Tintore di Tramonti (rosso carne) con 10% di Piedirosso. E’ invecchiato in ampie botti e non è usato biossido di zolfo. Mi ricorda un po’ del sud-ovest della Francia ma anche un po’ del rosso Vino Verde, e sicuramente c’è anche un accento italiano nel mix.
Monte di Grazia Rosso 2007 IGT Campania. Colore profondo. Al naso è meravigliosamente carnoso, sanguigno, iodato e minerale con sentori di prugna e ciliegia. Ha molta frutta ma è prevalentemente non dolce. Al palato continua così, con una deliziosa punta minerale, ghiaiosa e speziata fino a frutti scuri. E’ abbastanza robusto e complesso con un’alta acidità e molta freschezza e intensità minerale. C’è anche un tocco di purezza – evita di essere rustico. Un vino entusiasmante. 93/100 (agente per il Regno Unito: Les Caves de Pyrene, al dettaglio £11)

Qui il testo in inglese: www.winenorak.com
Traduzione di Novella Talamo

Anzitutto una pillola di scrittura: notate come Jamie sente subito l’esigenza di presentare geograficamente il luogo di cui scrive collegandolo ai posti più conosciuti, Amalfi e Napoli. Si tratta di un servizio da offrire sempre al lettore e che spesso in Italia si dimentica di fare, non bisogna mai dare per scontato che chi legge conosce la geografia di tutto il mondo. Nel Regno delle Due Sicilie, a meno che non si tratti di Napoli, Vesuvio, Capri, Ischia, Sorrento, Positano, Amalfi, Ravello, Pompei, Paestum, Etna, Palermo, Taormina, è giusta tecnica espositiva offrire un riferimento immediato.
Questo vale per chi scrive, per chi produce e per chi commercia. Come vedete, nonostante valorosi assessori al turismo e milioni di fondi europei spesi in grafica negli ultimi anni, rispetto ai tempi dei Romani è cambiato ben poco:-)

Il vino è sicuramente molto buono, complesso, sono intrigato anche da note verdi che emergono nel bicchiere dopo una decina di ore. Verde di orto coltivato. E poi un po’ dalla spolverata di pepe nero, note di lavanda. La grandezza di questo 2007, forse il migliore rosso di questa annata in Campania, è che tiene sotto schiaffo la frutta, non consente cioé alle note ciliegiose tipiche del millesimo di prendere il sopravvento, ma le contiene al naso e in bocca. Un problema di gusto, ovviamente: meno frutta dolce c’è più il vino è di mio gradimento. Il colore è penetrabile, la sapidità domina il palato insieme ad una freschezza selvaggia. Un vino al tempo stesso pieno e sottile, molto elastico, mutevole, abbinabile. Grande fattura artigianale. Negli anni ’90 sarebbe costato almeno quarantamila lire (leggi 40 euro, non 20) e sarebbe diventato un vino-evento.
In effetti, se la Francia in questo periodo ha coltivato la tradizione nel vino con le celebrazioni dei marchi già conosciuti, un po’ come gli inglesi nelle consuetudini, in Italia gli anni ’90 si sono goduti proprio grazie ai vini-evento non essendoci altra tradizione significativa secolare pre-metanolo se non quella del Marsala. Quello che manca agli appassionati, soprattutto ai giovani che non hanno vissuto quel decennio, sono proprio i vini-evento, quelle bottiglie cioé capaci di imporsi in un lampo all’attenzione di tutti grazie ad un ventoso passaparola, più veloce di internet. Capaci di entusiasmare e dividere, far litigare. Avete notato che sul vino neanche si litiga più? C’è stata la reazione neopauperista, la ricerca cioé di autenticità vista come contraltare a quelle che sono state considerate unicamente operazioni commerciali, ma da questa posizione, spesso inutilmente aggressiva, non sono nati, come invece si poteva prevedere, neanche i vini cult, ossia padroni di una nicchia, sia pure ristretta. Ciascuna tribù beve il suo vino e non c’è più l’ambizione di convincere gli altri delle proprie scelte.
Diciamo che dopo il 2001 navighiamo tra vini buoni e a buon prezzo e né il marketing di scuola toscana, né il passaparola degli appassionati dei vini naturali sono riusciti a partorire vini leggendari, simbolo di un’epoca. Un po’ come la politica di oggi che non ha canzoni da cantare se non il karaoke berlusconiano perché non ha più ideali che l’alimentano. In effetti, se ci voltiamo con lo sguardo alle ultime stagioni, possiamo enumerare tanti buoni vini, alcuni straordinari, ma nessuno che abbia il tocco magico di termini immediatamente riconoscibili da tutti come Sassicaia, Montevetrano, Dal Forno, Gaja, eccetera eccetera.
Il cambio di passo lascia un po’ tutti orfani di qualcosa, ma è normale che le cose stiano così. Se nuovi miti nasceranno dovranno avere le condizioni nuove della fase nuova perché è chiaro che in un territorio vergine, quale era l’Italia tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli ’90, bastava fare buon vino, costruire solide relazioni, stare attenti al marketing, per emergere e spuntare prezzi dettati unicamente dall’autocontrollo del venditore.

La ruota della fortuna

Dopo questo petting entusiasmante, si inizia a fare sul serio e servono dunque altre cose. Cosa? In primo luogo cultura, poi coltura. Cultura e coltura del territorio, consapevolezza del proprio ruolo nella tradizione rurale sinora vissuta dalla comunità nel corso degli ultimi decenni, cultura del rispetto dell’ambiente, capacità di misurarsi la palla con altre esperienze, attenzione ai particolari. Ma serve anche una cultura del commercio diverso, che non considera il vino come una buatta di pummarola da vendere, cercare la profondità delle annate e vincere la sfida dei cru.
Quando dico queste cose, la maggior parte dei produttori alza le spalle: il mercato vuole questo, già è difficile così. Solo pochi amatori apprezzano bianchi di annata o capiscono cosa è un cru. Vero, ma se andiamo con la mente subito dopo la crisi del metanolo, cosa si beveva in Italia? Chianti fatto con trebbiano, Galestro, Mattheus e Lancers, rossi puzzolenti al Sud, il dolcetto in Piemonte, Franciacorta non esisteva se non come entità geografica. Nelle carte dei ristoranti importanti c’erano solo francesi (da qui la leggenda metropolitana secondo la quale per avere la stella bisogna avere la carta inzeppata di Bordeaux e Borgogna). In quell’epoca ci furono persone che ebbero sogni, visioni, prospetti strategici e la musica di pochi è diventata spartito di tutti.
Ora servono altri sogni, sono i sogni della maturità commerciale. In fondo i produttori si dividono in due categorie: quelli che lavorano per se stessi e quelli che investono per i figli. I primi hanno costruito gli anni ’90, i secondi, speriamo, dovranno costruire la viticoltura italiana matura e capace davvero di guardare negli occhi la tradizione francese non perché mette in circolazione bottiglie da un chilo e packaging da alta moda. Questo è il sogno, che si può realizzare solo con serietà ed coerenza etica.

Etica

Etica sembra una parola grossa pronunciata nell’accezione comune, perché la cultura sociale ottocentesca e religiosa di cui è impregnato il nostro inconscio le attribuisce naturalmente un significato impegnativo. Ma chi ha fatto gli studi classici sa bene che non è questa la cifra del vocabolo, noi possiamo tradurre l’ultima affermazione con il termine “coerenza comportamentale”. Servono infatti non missionari o candidati al Paradiso, ma bravi viticoltori, grandi o piccoli non ha importanza, nuovi e antichi, che abbiano l’intelligenza di capire come sia mutato il passo, e che dunque prestino attenzione al motore oltre che alla carrozzeria. Che facciano corrispondere il commercio all’agricoltura e non pensino con le chiacchiere di tappare le falle produttive. Ma che neanche pensino più che basta fare un buon prodotto per venderlo. Leggendo qui e qui capirete cosa intendo.
Diciamola tutta: in commercio i vini evento si possono creare in dodici mesi. In agricoltura servono invece una decina d’anni dal momento in cui si pianta la vite sino al giusto elevamento del vino. Ecco perché non ci sono più superstar, perché gli appassionati vanno oltre il bicchiere e chiedono verità, non verità rivelata ma verità commerciale. E solo un produttore di cultura è in condizione di offrirla, ma nel frattempo deve costruirla.

Anche chi ha avuto il monopolio della critica negli anni d’oro è costretto a cambiare passo dalla realtà in trasformazione. E non serve a niente aggredire chi costruisce la Ferrovia, meglio mettersi a costruire nuove locomotive.
Il compito della critica, e del giornalismo, oggi è raccontare o valutare chi sta lavorando per i propri figli. A quelli che lavorano per se stessi basta un buon ufficio stampa e le vecchie carrozze trainate dai cavalli. O dai ciucci?

Sede a Tramonti, Via Orsini, 36. Tel. e fax 089. 876906. www.montedigrazia.it/ [email protected] Enologo: Gerardo Vernazzaro. Ettari: 2 di proprietà. Bottiglie prodotte: 10.000. Uve: biancatenera, ginestra, pepella, tintore, piedirosso