Montevetrano 1992, il giorno dopo


di Paolo De Cristofaro*

Caro Luciano,
questa è una lettera di ringraziamento. Triplice, dovrei dire, perché dopo la divertentissima serata di sabato nella tua splendida casa di famiglia hai voluto ospitarmi sul tuo sito ieri e mi rinnovi l’opportunità oggi. Ma ti ringrazio anche per un altro motivo. E’ merito del tuo wineblog se ieri ho potuto vivere un giorno alla Orson Welles. Per chi non lo sapesse, il famoso regista-attore di Quarto Potere negli anni ’30 era curatore e voce narrante di un radiodramma ispirato al romanzo “La Guerra dei Mondi” del suo quasi omonimo H.G. Wells, una storia di alieni e invasioni extraterrestri portata al cinema poche stagioni fa da Steven Spielberg con Tom Cruise come attore protagonista. Discreto colossal che non passerà certo alla storia, a differenza del suo predecessore radiofonico che durante una puntata fece riversare in strada migliaia di ascoltatori, convinti che davvero truppe di marziani stessero invadendo l’America.
Non so come possa essersi sentito l’autore di Citizen Kane quando gli riferirono la cosa, di certo so come mi sento io dopo aver raccolto per tutta la giornata di ieri le reazioni al mio “racconto” sul Montevetrano ’92. Divertito ed esterrefatto, mortificato e rivitalizzato, ma soprattutto arricchito da due grandi lezioni. La prima è che in Italia si può scherzare su Veltroni e Berlusconi, perfino sul Papa, ma non si può scherzare sul vino: leggo e sento da mesi su innumerevoli forum e blog che bisogna alleggerire la comunicazione enogastronomica, prendersi meno sul serio, lasciare spazio alla goliardia eppure ci si accorge che sono proprio in pochi a mettere davvero nel conto un nuovo atteggiamento. La seconda, ancora più importante, è che quando parliamo di icone enologiche e fazioni critiche, di verticali e stili produttivi siamo veramente in pochi a capirci e tra quei pochi ce ne sono tanti che sembrano vivere sull’orlo di una crisi di nervi, continuamente voltati all’indietro a guardarsi le spalle, terrorizzati da un’atmosfera che è prima di tutto schieramento e contrapposizione. Parlare bene o male di un vino, oggi, non significa più soltanto esprimere un parere o un punto di vista, ma per molti vuol dire prendere una posizione, scendere in campo, colpire un bersaglio, mandare indirettamente un messaggio a qualche sorta di “nemico”. Posso dire che in questo modo di vivere e raccontare il vino non mi ci ritrovo? Tutte le persone che mi conoscono, professionalmente e non, sanno quanto mi sia nel cuore un vino come il Montevetrano. Lo dice la mia cantina privata e lo dice anche la mia attività di collaboratore di Gambero Rosso che ha sempre premiato la creatura di Silvia Imparato e Riccardo Cotarella, compresi i 5 anni da responsabile regionale. Quando esprimo il mio apprezzamento per questo ormai mitico blend picentino, però, noto molto spesso una sorta di muro ideologico che rende poco costruttiva la discussione. Anziché confrontarsi sul suo carattere, sulla sua longevità, sulla sua capacità di esprimere un’eleganza rara per un vino del sud, si finisce sempre per parlare di omologazione, di enologi, di internazionalismi. Sabato sera ho bevuto una bottiglia straordinaria per identità, integrità, energia. Parlo delle mie sensazioni e quando le esprimo sono perfettamente consapevole che un altro potrebbe pensarla all’opposto. Ma ultimamente mi capita sempre di meno di trovare qualcuno disposto a “scontrarsi” su quello che c’è nel bicchiere; molto più frequente è etichettare le riflessioni a prescindere da quello che si assaggia.
Il mondo della comunicazione e della critica enologica si sta ristrutturando profondamente e la rivoluzione di Internet ha innescato un piccolo ma rumoroso movimento di “guerriglia” che ha scelto come obiettivo tutto ciò che è istituzionale, consolidato, potente. Un sistema simboleggiato dal mondo delle guide che, specialmente in questo periodo, si trova costretto a “difendersi” da gruppi di appassionati, a volte molto competenti e preparati, altre volte talebani e con interessi in campo, che ne contestano la staticità e reclamano maggiore pluralità di informazioni, punti di vista, coraggio. Credo che questo sia stato e possa essere un bene per il mondo del vino, a patto che non si trasformi in una nuova oligarchia al contrario, decisa soltanto a sostituire un modello estetico con un altro. Quell’oligarchia per la quale, ad esempio, se ti piace il Montevetrano sei un nemico della tradizione e un assoggettato al gusto internazionale. Così, senza discutere, senza approfondire e, aggiungo io, molto spesso senza assaggiare.
Dicono molti autorevoli studiosi che la psicosi collettiva originata dal radiodramma di Orsono Welles si può capire solo se si hanno presente le delicate condizioni sociali ed economiche di quel periodo, non tanto diverso da quello attuale, a ben vedere. Recessione, paura del futuro, sensazione di precarietà: per molti fu più facile credere al vero arrivo dei marziani che ad una fiction radiofonica. Contrazione dei mercati, riposizionamento dei soggetti protagonisti della comunicazione enologica, personaggi alla continua ricerca di visibilità e pseudo-scoop: per molti è più facile pensare che un collaboratore di una guida esca improvvisamente di senno e “rinneghi” le preferenze sue e del suo editore piuttosto che cogliere lo scherzo e l’iperbole. Ero perfettamente consapevole che la mia provocazione non sarebbe stata percepita da tutti e, se potessi farlo, vi farei leggere tutti i messaggi che mi sono arrivati ieri mattina del tenore “finalmente qualcuno che ha avuto il coraggio di dire la verità sul Montevetrano”. Un po’ meno mi sarei aspettato che l’ironia non sarebbe stata colta inizialmente da alcuni, estimatori come me, del grande bordolese picentino, e perfino, forse, dai suoi artefici. Se col mio gioco ho offeso il loro lavoro e urtato la loro sensibilità, me ne dispiaccio e soprattutto me ne scuso sinceramente, così come chiedo scusa al padrone di casa che così gentilmente ha ospitato il mio “racconto all’incontrario”. Vuol dire che la prossima volta che vorrò condividere la mia soddisfazione per una grande bottiglia di Montevetrano stappata con una ancor più grande compagnia mi limiterò a descrivere le tonalità di colore sull’unghia del bicchiere e ad elencare con dedizione e precisione tutti i sentori che si paleseranno al mio olfatto, per poi rendere esattamente il gioco dolce-acido-salato-amaro dello sviluppo gustativo. Del resto è cosi che si fa. Giusto, Luciano?

*responsabile Campania Gambero Rosso

Caro Paolo,
anche io ho imparato qualcosa ieri, arricchendo la mia pratica su questo meraviglioso strumento di comunicazione: in primo luogo la sua effettiva potenza, di gran lunga superiore a quella alla quale mentalmente faccio riferimento. Anche io ho ricevuto molte mail di chiarimento, tanto che ad un certo punto ho ritenuto aggiungere, quando già in home c’era altro, il piccolo prologo per evitare equivoci che a mio avviso, il tuo inno alla barbera avrebbero dovuto sgombrare d’incanto come la frase <siamo su scherzi a parte>.
Il vino è tecnica, ma è soprattutto quello che ispira, nel parlare e nello scrivere, nel trasmetterlo. Mi è molto piaciuta la tua voglia di sfotticchiare gli ipercritici irriducibili di questo vino simbolo e al tempo stesso, farmi riassaggiare il 1992 attraverso i descrittori ben precisati. Una tecnica innovativa e molto divertente.
Alcune reazioni confermano però come la scrittura internettiana sia ben lontana da rappresentare le sfumature dello spirito umano. Ci sono studi precisi che consigliano di usare ancora il telefono anziché la mail per questioni importanti perché il timbro e il tono della voce sono elemento essenziale per precisare meglio una questione. Se io dico de visu a Nicola Venditti: <Buon vino, dimmi, dove compri le uve?> gli strappo un sorriso, se lo scrivo mi arriva la lettera dell’avvocato di rettifica.
In questa difficoltà semantica si inseriscono, sempre, coglioni, teppistelli e analfabeti. Quelli che sporcano i muri, come ha scritto Fabio Rizzari. Anche il clima a cui tu fai riferimento dal quale non è possibile farsi condizionare perché è semplicemente claustrofobico: bisogna andare avanti inseguendo la propria passione e soprattutto facendo bene il proprio lavoro che non è quello di schierarsi, ma di raccontare. Come se un sommelier decidesse di servire unicamente i vini che gli piacciono alle persone che gli sono simpatiche umanamente e politicamente: solo un prepotente che gioca con la vita degli altri può arrivare a pensarlo. Poi, magari, in privato si possono coltivare i gusti personali. E’ questa la differenza tra professionisti e dilettanti appassionati. Questo comporta delle critiche o, peggio, degli attacchi perfidi e immotivati? Pazienza (ma anche tanto divertimento e opportunità di incremento del traffico): a chiunque può capitare di trovare il vetro rotto o una botta ma non per questo l’auto non si parcheggia. La vita è questa, soprattutto è troppo breve per bere vino cattivo e perdere tempo con chi ha l’animo frustrato dalla malvagità e dalla incompetenza lessicale. Ricordo le mie, ormai per fortuna lontane, frequentazione con un collega professionista, peraltro perbene, che ha inventato il giornalismo a chilometri zero: ogni bevuta era una classifica, ogni mangiata un confronto con un altro ristorante, ogni ricetta era comparata ad un idealtipo tradizionale. Stressante e, soprattutto, ansiogeno. Inutile. Aveva bisogno di un nemico per ricostruire la propria fragile identità. Quando scrive o parla è sempre contro, mai di, qualcosa e qualcuno.
Ecco, uno dei tanti meriti di Silvia Imparato è stata la sua trasfigurazione in icona, una cosa che non le piace affatto e la disturba molto perché lei ha un carattere netto, immediato e coraggioso. Per questo il suo vino, come altri, è diventato anche punto di confine tra diverse scuole di pensiero. Lo stesso vale per Riccardo Cotarella che a mio giudizio è uno dei più grandi in Italia, uno dei pochi a sapere esattamente cosa sta succedendo nel mercato mondiale, oltre la siepe angusta eretta dalle fobie del neopauperismo. Inevitabile, quando si scrive di loro, generare plausi o fischi.
Ma tutto questo è scontato. Il tema vero resta quello della scrittura su internet e mi affascina sempre di più: ciò che va in rete è specialistico sul giornale, viceversa, gli articoli sui giornali appaiono superficiali se inseriti in questo contesto. Credo bisogna lavorare, oltre che sui contenuti, sulla necessità di essere più precisi sui media tradizionali e più divulgativi sul nuovo. La strada non è l’alleggerimento e la semplificazione dei pezzi (post), altrimenti non si spiegherebbe come da mesi i primi due siti e/o blog centrati sul vino della rete siano quello di Ziliani e questo (tra l’altro entrambi molto ben posizionati in assoluto), che tutto sono, tranne che light. Forse il segreto è capire che il lettore di riferimento non è quello che che conosciamo, bensì generico. Ad esempio: hai notato che raramente appaiono didascalie alle foto dando per scontato che si debbano riconoscere i personaggi? Vedremo, approfondiremo. Imparerò.
Vedi, caro Paolo? Anche questa è una descrizione del 1992. Non bella come la tua, però.
Grazie a te e a Teresa per aver accettato l’ospitalità e condiviso queste giornate a Vallo della Lucania, ma dovete tornare perché siete in arretrato di una scalata sul Gelbison…

Caro Luciano,
aggiungo questa mail alle tante che ieri hai ricevuto sull’articolo di Paolo De Cristofaro. E a quello che lui ha ricevuto a sua volta. Mi piacerebbe scriverla con lo stile ironico e provocatorio con cui ha scritto lui “Montevetrano 1992” sul tuo sito. Ma mi costa una terribile fatica stamani perchè ci vuol un’ispirazione “picariana” e l’onda lunga di un signor vino come quello di Silvia Imparato, per scriverlo. Vorrei però facendolo, dandoci sotto con le iperboli e l’ironia, come ha fatto lui, dimostrare come effettivamente si possa rimanere a bocca aperta, come forse sarà accaduto a coloro che se ne sono lamentati. Potrei dire “però che bel raccontino ha fatto quel semplice giornalaio di Paolo de Cristofaro”, pur pensando che non è nè semplice, nè giornalaio. Eppure avrei la colpa di avere uno humor un po’ pesantino. Peggio: potrei essere fraintesa come è accaduto a lui.
Una cosa è certa: non c’è un filone troppo consolidato di scrittori o artisti satirici sui nostri imprenditori, come su politici e Papi. Anche se alcuni di questi imprenditori sono anche loro sufficientemente dei personaggi pubblici. In questo senso Paolo ha seguito un percorso nuovo, e il suo pezzo è divertente e innovativo (a me è piaciuto e l’ho inteso).
Ma gioca su un terreno accidentato che una persona dedita alla scrittura come lui non doveva sottovalutare, quello cui accennavi e sul quale ho riflettuto, guarda caso, proprio in questi giorni e ore di fronte a delle evidenze concrete(forse l’ho anche scritto): la scrittura è materia viva, ma le manca la voce. Come tale va usata con prudenza.
Tu scrivi giustamente: “Se io dico de visu a Nicola Venditti: <Buon vino, dimmi, dove compri le uve?> gli strappo un sorriso, se lo scrivo mi arriva la lettera dell’avvocato di rettifica”. Anche a me, hai fatto sorridere, perchè conosco te e Venditti, e le sue uve, ma un estraneo che approdasse sul tuo sito (per definizione, del resto, è questo il compito di un sito: ampliare la cerchia degli utenti su un argomento) leggendo un lungo articolo impostato su questi amicali scambi di battute non capirebbe. E Venditti non potrebbe non preoccuparsene.
I pericoli, come ricordi tu, vengono dalla potenza del mezzo, che tipicamente sfrutta la realizione tra un emittente e un pubblico x indeterminato. E sul tuo blog, che, ricordo, è uno dei primi del Food and Beverage, quel pubblico è molto ampio. Si spera che sia anche targettizzato, dunque specialistico. E che quindi sappia leggere l’ironia di Paolo. Ma è meglio non giurarci.

Monica Piscitelli

Grazie Monica. Per questo ho scritto di aver appreso molto ieri. Condivido le tue riflessioni che sono le nostre, ma non la nota finale pessimista (o è pragmatismo femminile?). Le cose e le persone belle sono di gran lunga di più di quelle brutte e sgradevoli. Per fortuna (l.p.)

Caro Paolo,
ho letto la tua divertente lettura della campania enologica nel pezzo sul Montevetrano e direi che sono proprio daccordo con te. il “fare” comincia ad essere sostituito dal “fare contro”, la passione piena di gioia e voglia di confrontarsi da meri riferimenti estetici e chiusure medioevali. certo anche nel mondo del vino campano ci sono delle storture, delle sagerazioni e dei poco lungimiranti ammiccamenti al mercato che spesso hanno rischiato di lasciar frainteso il potenziale enologico di questa regione, ma il terroir (ma si per una volta usiamola questa parola!) si esprime in tante forme, attraverso tanti suoli, vitigni, persone, metodiche, storie e tradizioni. l’importante è tenerlo a cuore, cercare di stabilire delle esperienze riconoscibili, tipiche nel senso di caratteristiche e appartenenti, se possibile durature, nel mondo del vino campano. come sempre ha fatto, in tempi di assoluta assenza di paragoni, la cara silvia imparato.Vai avanti così, le tue letture e descrizioni intelligenti e pulite del mondo del vino serviranno sempre e comunque a tutti, nel bene e nel male.

Fortunato Sebastiano


Segnalo un commento, molto delicato e pienamente condivisibile, dell’amico Luigi Metropoli sul blog Divino Scrivere

Gentile Luciano,
non conosco De Cristofaro, ma ho trovato divertente il suo articolo ironico (anche un po’ polemico, ma non guasta). In effetti mi trovo in parte d’accordo con Monica Piscitelli quando si chiede se può essere chiara a tutti l’ironia. Certo è che la presenza delle 3 bottiglie come giudizio non dovrebbe (apparentemente) dare adito a fraintendimenti.
Ho voluto anch’io lasciare un contributo su Divino Scrivere, come hai già avuto modo di leggere, proprio perché mi sembrava giusto scrivere le impressioni di un “non-fan”, come mi sono già definito altre volte, ma con la consapevolezza che il Montevetrano non può essere snobbato. Il fatto che se ne parli è comunque implicitamente un indizio della sua importanza e imprescindibilità, che poi lo si ami o no, questo è un altro conto.
Un caro saluto

Luigi