Nerello di calabretta


La riconoscibilità immediata di un vino è sicuramente più importante del suo valore assoluto raggiunto in una degustazione, possibilmente coperta e non teleguidata please. Per questo motivo la frontiera biodinamica apre discorsi molto interessanti, uno smarcamento deciso rispetto alla piallatura in corso alimentata dal crescente successo dello stile californiano negli anni ’90. Pensiamo alla Sicilia, diventata la seconda regione dopo il Veneto per la quantità prodotta di Cabernet Sauvignon e dove nella fascia media, ma anche in parte in quella alta, il Nero d’Avola è sempre eguale. C’è chi viene rassicurato, soprattutto quando mangia e beve, dalla soppressione della diversità, ma un appassionato difficilmente accetterà mai questo destino banalizzante a cui il gusto americano vuole necessariamente indirizzare tutto il mondo, qui dove il vino o è bianco o nero, o Cabernet o Chardonnay. La mente vuole scavare, la cultura ha bisogno di continue scoperte per soddisfare curiosità, la ricchezza della cucina italiana non può essere soddisfatta da vini sempre eguali a se stessi, indipendentemente dai terroir, dal vitigno, dalle annate. Alle spalle del miracolo siciliano, la nuova vera superpotenza vitivinicola europea ci sono però alcune cose davvero interessanti e di alto valore, da noi scoperte alla Taverna del Capitano grazie alla competenza e alla passione di Mariella Caputo, giustamente designata da Enzo Vizzari Sommelier dell’Anno nella Guida dei ristoranti dell’Espresso. Parliamo allora di un nerello mascalese del 1998 prodotto sul versante settentrionale dell’Etna a circa 750 metri dall’azienda Calabretta, fondata all’inizio del ‘900 da Gaetano e Grazia, genitori e nonni rispettivamente di Massimo e Massimiliano i quali hanno deciso di riorganizzare la cantina, i vigneti e la produzione una quindicina di anni fa: due vini, rosato e rosso per un tipico Etna doc coltivato biologicamente sul fertile terreno vulcanico in un terroir molto simile al Vulture. Ecco allora un bicchiere tradizionale come piace a noi, addio rosso cupo impenetrabile, rubino con unghia granata, di grande eleganza, ben dosato nel legno, sostenuto dopo sette anni con disinvoltura da una buona spinta di freschezza e soprattutto dalla mineralità, abbastanza intenso, persistente, con un costo impensabile visto che siamo sotto i dieci euro. Apriamo dunque l’anno con un bicchiere assolutamente riconoscibile di cui quasi si sono persi gli esempi in Sicilia: lo beviamo su un bel ragusano di media stagionatura, o su un agnello cotto con le erbe mediterranee.