Roma Caput Vini. La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino. Di Giovanni Negri ed Elisabetta Petrini


Giovanni Negri ed Elisabetta Petrini

di Marina Alaimo

Ci ha piacevolmente sorpreso l’apprendere che il libro di Giovanni Negri edito da Mondadori esordisca citando questo blog. Nelle prime righe del prologo si legge esattamente così: ho deciso di scrivere questo libro l’11 giugno 2010. Era un venerdì, e stavo curiosando in un autorevole blog dedicato al vino (www.lucianopignataro.it).

L’ottimo giornalista raccontava la sua ultima visita in Borgogna, magnificando vini e cantine di un incantevole fazzoletto di mondo. Ed ecco che la signorina Monica, alle 13.21, decideva di inviare il seguente commento: “Questo spazio dedicato al vino francese ci sta proprio bene. Soprattutto ricorda a tutti noi che la storia del vino risiede là. E che la viticoltura italiana in confronto ha una storia lunga quanto la vita di una farfalla, ma splendida e rara”. Questo libro è scritto nella speranza che la signorina Monica, e tanti altri che in Italia si appassionano al vino, possano superare una volta per tutte lo strano complesso del brutto anatroccolo che li spinge a inchinarsi dinnanzi a tutto ciò che è Francia – fin qui niente di male – e a rimuovere ogni consapevolezza della propria storia”.

In seguito l’autore invita tutti gli eno appassionati e professionisti del settore  ad avere piena consapevolezza che la grande storia del vino è stata scritta dai Romani ed esportata poi nel resto d’Europa, spinti dalla loro irrefrenabile mania di espandersi e dominare. Certo ancor prima sono stati i Greci ad introdurre il culto del vino nella Magna Grecia, ma è a partire dal II secolo a.C., quando si diffonde tra il popolo il pane, che il vino smette di essere una bevanda per ricchi patrizi.  Diventa quindi  inseparabile nutrimento di accompagnamento al pane, ma anche piacere per la massa che sino ad allora aveva consumato solo qualche brodaglia a base di cereali.

La larga diffusione del vinum induce ben presto commercianti ed imprenditori ad investire nel settore ed a pensare di esportare la bevanda oltre i confini dell’Urbe servendosi delle numerose legioni dislocate nei vari territori dell’Impero. A questo punto l’autore descrive una storia ricca ed appassionante ricordando con precisi riferimenti come il Vinum sia stato inseparabile accompagnatore della storia dell’Impero Romano, tanto da scegliere il tralcio di vite come simbolo della propria forza. I centurioni infatti durante le campagne espansionistiche stringevano nella mano destra un bastone chiamato vitis.

Giovanni Negri paragona la geniale scelta del vino e della vite come icona della magnificenza dell’Impero ad un’altra straordinaria bevanda simbolo della prima potenza mondiale, la Coca Cola. Fu infatti durante la Seconda Guerra Mondiale che la già popolarissima bevanda gassata fu portata in giro per il mondo dai marines. Ritenuta un importante strumento di pausa serena per i militari in guerra, si decise di  stanziare ben 64 linee di imbottigliamento nei vari fronti di combattimento perché all’esercito non mancasse mai la bevanda simbolo dell’America.

La coautrice Elisabetta Petrini arricchisce questa importante ricostruzione della storia del vino italiano con un prezioso studio etimologico dei nomi dei vitigni,  confermando senza alcuna possibilità di dubbio che Roma fu Caput Vini.

Il libro conclude con un capitolo del professor Attilio Scienza che descrive il proprio studio sulla ricostruzione della storia del vino in Italia, dove i fatti di cronaca si avvalgono degli studi scientifici condotti sul dna di numerosi vitigni raggiungendo la conclusione che le diverse varietà presenti in Europa ed oltre sono tutte discendenti da quella vitis vinifera che i Romani impiantarono nei territori dell’Impero.

Sul retro copertina si legge “ La storia che gli italiani non sanno e che i francesi non vorrebbero sapere”. Ed a questo punto mi viene di suggerire a Giovanni Negri di inviare una copia tradotta in francese di questo interessantissimo lavoro al presidente Nicolas Sarkozy. Immagino come con la sua solita aria di saccenza e superiorità stampata sul viso, imposterebbe disgustato le labbra a culo di gallina per poi esclamare “imbecìle”.

7 Commenti

  1. VERISSIMO E SE ROMA E’ LA CAPUT VINI, LA CAMPANIA E’ LA CAPUT COQUINA, O COMUNQUE SI DICA IN LATINO.
    Per troppo tempo abbiamo chinato il capo anche anche in questo campo e non mi riferisco necessariamente alla Francia. La Campania piu’ e meglio di chiunque altro puo’ vantare sia il retaggio greco che quello romano, unica regione a vantare vitigni millenari ed una gastronomia altrettanto antica. La patria della vera cucina mediterranea che qui fu concepita, delle paste asciutte in genere e degli spaghetti in particolare, della pizza e del pomodoro edibile e che studi seri potrebbero ben dimostrare essere stati il frutto di sapiente selezione dei contadini campani. Questa regione ed il sud tutto, vantano primati agroalimentari che per troppo tempo sono stati minimizzati se non ghettizzati. Mi si dirà che ben altri sono i problemi di questa parte d’italia e questo certamente e’ vero, ma e’ altrettanto vero che il saccheggio delle nostre peculiarita’ certo non ci aiuta a crescere economicamente.

  2. Fin tanto che continueremo ad usare termini come “terroir” “batonnage” etc.saremo sempre condizonati dalla Francia

  3. Grazie Marina, per questo bel racconto. Quella signorina Monica ero io. E’ delicato il pensiero dell’autore nei confronti di questo mio commento. Poteva essere chiunque. Mi commuove che una mia fugace riflessione, come tutto il lavoro che si fa in queste pagine, abbia stimolato un autore a scrivere un’opera intera. (@Luciano: fosse possibile che ogni post diventasse materiale per l’amata carta a stamp!) Tuttavia mi fa piacere tornare sul quel commento per dire che giammai, concordo con l’autore, dobbiamo nutrire il complesso del brutto anatroccolo. Penso per esempio, per enunciare un’ottima ragione, alla banale questione della spropositata, e a volte ingiustificabile, differenza di proporzione nel rapporto prezzo qualità Credo, sia condivisibile, che siamo tutti consapevoli, noi operatori della comunicazione del vino italiano (la mia prospettiva era quella di una giornalista del Sud, però), che la soggezione se non è, forse, qualitativa (con le debite prudenze), nè temporale, è da riferirsi alla capacità dei francesi di fare la storia moderna del vino, sotto molto punti di vista. Il marketing tra gli altri, ma anche, fondamentale, la tecnica enologica. Nonchè l’avere , i francesi, un numero di vendemmie maggiore (il vino si impara a farlo) secondo i moderni parametri. Se avessimo tesorizzato le ricchezze che semplicemente avevamo per contiguità territoriale con la culla greca del vino, la storia sarebbe stata diversa. Forse non abbiamo ancora la forza di caricarci sulle spalle l’eredità di Enotria o quella semplicemente, per dirne uno, di un vino come il Falerno. Un grosso gap, si è creato in merito al vino, tra il nostro fulgido passato e il nostro recente presente. La moderna vitivinicoltura italiana è innegabilmente meno datata rispetto a quella francese. A questo mi riferivo. Il battito di una farfalla, comunque sia, ha sugellato questo felice incontro con l’autore che noi del blog, con il nostro Luciano, direttore, ringraziamo per leggerci. Ed io sono particolarmente felice che tre mie righe abbiamo acceso la sua penna! Tra pensare di scrivere un libro, lo so bene, e scriverlo, passa più che un battito d’ali, io gli faccio tanti auguri e lo saluto. Mi è dispiaciuto non poter essere presente alla presentazione. m.

  4. Certo. La verità è che non ho potuto moderare, con Luciano, l’incontro come si sperava. Mi sarebbe piaciuto. A parte per l’occasione insolita, ovviamente, anche per ascoltare con voi l’autore. Magari si sarebbe potuto tornare su quel mio pensiero.
    Ma, convenevoli, pretesti di scrittura, signorine e muse a parte, sono curiosa ora di scoprire Roma Caput Mundi. Alla prossima. m.p.

  5. gentile marina,opero ne ìl vino da poco tempo ma,come sardo,conosco la storia.mi occupo infatti di archeoenologia ,
    la scoperta o un nuovo vino,la polemica della competizione con i francesi poco importa.
    abbiamo una biodiversità invidiabile,e crediamo poco nei vini che produciamo.
    oggi l’ho cercato ma non l’ho trovato,vediamo cosa dice di nuovo

  6. Ho ricevuto in regalo questo libro perchè da trent’anni mi occupo, come archeologa professionista, di anfore, di dinamiche commerciali e di cucina di epoca antica. Hanno pensato di farmi un grande regalo visto il contributo di Attilio Scienza. Ho letto e ho riso e mi è venuto subito in mente il marpione di produttore emiliano che negli anni 1980 si divertì, per soldi, a produrre la sua coke in California, lambrusco frizzante di cui ho ancora 5 magnum. “vinum” che in Italia invece veniva regalato durante le gare di Formula 1, ma che non è mai riuscito a sostituire il magnum di champagne sul podio. Vediamo se vi obbligo a pensare un po’, soprattutto sull’immaginario metropolitano descritto nei primi capitoli. Che buffo, quando vai al liceo i vocabolari ti stroncano le spalle e poi da adulto dimentichi la loro utilità. Secondo vocabolari e lessici il titolo del libro doveva essere diverso. Primo quesito: vinum o merum? Lo stesso vale per il termine “barbaro”, che poteva anche essere definito “itinerante opportunista”, visto che dove ha veleggiato si è appropriato delle produzioni locali e dei flussi di import-export già esistenti. Se si utilizzano dei grafici pseudoarcheologici, come quello di p. 82, sarebbe meglio appurare prima della stampa se sono corretti. Secondo quesito: ci sono almeno due tipologie di disegnini errate. Quali? Se non ci riuscite non sarete mai dei funzionari doganali, perchè non avete riconosciuto dalla forma dell’anfora il suo luogo di partenza e il suo contenuto; e se il carico era univoco o misto, cosa molto importante ai fini fiscali. Il filo conduttore del libro sarebbe il centurione con il suo vitis. Peccato che il vitis non avesse radici e le legioni fossero in altre faccende affaccendate prima dell’Heunisch. “cedo alteram” e venne linciato in un accampamento lungo il Reno (lo racconta Tacito). Il libro è permeato da un acido retrogusto di protezionismo attuale del vino italico, dimenticando che non furono gli italici a diffondere la vitivinocoltura, ma tutti i coloni migrati dalle coste dell’Asia minore e dell’Egeo a partire dal II millennio aC, che riempirono le loro barche anche di piante con le radici e non di vitis. Come per il sale, l’olio, il pesce lavorato, gli abitanti della penisola italica (che non erano legionari e di Roma non gli interessava un fico secco) fecero proprio quanto trovarono di già messo a punto nei nuovi territori. Chiamali scemi. Vedi Catone il vecchio visto che lo si cita. Nel libro non si parla delle produzioni di vino attestate archeologicamente a partire dall’VIII aC in svariate zone del Mediterraneo e del conseguente suo smercio, in un momento cronologico nel quale la cavernicola provincialità terriera dei primi colli era troppo impegnata nei ratti delle varie sabine o a tenere a freno le loro prime oche da foie gras. Altri quesiti: che cosa successe a livello legislativo nel 213 aC? la botte nella quale rotolò Attilio Regolo aveva già assolto come ruolo primario il contenere alimenti o spazzatura? chi restaurò, e con quali finanziamenti, il foro di una importante città della Catalogna nel I dC? cos’è un dumping per l’antichità? cosa comporta una vendita mirata di 10.000 anfore da vino? cos’è il “paradosso” di Braudel? quante anfore di Chio sono state trovate lungo il Mediterraneo? chi è la “novella 2000” di epoca antica, che nessuno cita più perchè appurato come non affidabile? come si chiamava in epoca antica quello che ora viene descritto come “i giardini dell’orto” o “la zuppa integrale della nonna”(non surgelata naturalmente)? l’heunisch venne anche incalmato con le produzioni del Mar Nero, visto che dal III-IV dC arrivano vini da taglio molto più gradevoli di quelli locali (anfora docet)? Se si risponde correttamente a tutti i quesiti vi regalo il libro, assolutamente inutile.

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