This must be the place


This must be the place – David Byrne

di Fabrizio Scarpato

C’è un posto freddo e perfetto: sulla parete lampeggia la scritta Cuisine. E’ una cucina, troppo ordinata, aliena, ma è una cucina. Non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo con una luce ad intermittenza. Tautologia superflua, un orpello idiota, tanto più se in quella cucina talvolta qualcuno cuoce effettivamente qualcosa. Ma se anche, come più spesso accade, ci scaldassero una pizza surgelata, potrebbe essere ancora sufficiente per considerarla una cucina: semplicemente, senza perdersi tra realtà e finzione. Certe amiche di Tony Pagoda in quella cuisine assemblerebbero puzzle di spigola con granelle di sesamo, posticce, le granelle e le amiche, come l’insegna appiccicata al muro. Essere e apparire: non è una piscina senz’acqua, ma uno sferisterio di pallapugno, non è una pizza, ma una schifezza a colori, non è un caffè, ma acqua sporca. Anche le persone ne soffrono. Degenerazioni, con squarci di scontato “Sai dove ho bevuto il miglior caffè della vita? A Napoli, in tour nel 1984”. Anche a un irlandese piace vincere facile.

C’è un posto nel verde di Dublino in cui una rock star cinquantenne arranca col suo fardello a rotelle: una maschera dagli occhi bistrati e il rossetto vermiglio, qualche problema irrisolto a giudicare dai bibitoni con cannuccia che si porta appresso in ogni dove. S’è arreso all’immagine di sé: la realtà è un disturbo, la vita un continuo inciampo fastidioso, da rimuovere con un semplice sbuffo dall’angolo della bocca, come fosse una ciocca degli spericolati capelli corvini. Non si vede, ma gli lampeggia in faccia la scritta Rockstar. Confortevole, forse, ma anche tremendamente complicato. Le complicazioni limitano la libertà, ed è facile che goffi tentativi di semplificazione risultino soltanto semplicistiche forzature, un assolo di chitarra smodato su un progressivo, lento, diffuso tappeto di ritmica e percussioni.

Gualtiero Marchesi (Repubblica.it)

C’è un posto, in fondo alla highway che entra in città, dove lampeggia una grande emme gialla, ritagli d’America tra il mare e la notte blu dei benzinai. Frotte schiamazzanti di bimbi ruzzolano tra i tavoli: alcuni giocano indisturbati a nascondino, altri vanno a caccia di posti da occupare per la loro serata di allegria E’ libero? Signore, va via? Anche qui c’è una scritta luminosa: Mc Italy, cosa vuol dire? Ce la siamo venduta? Diciassette euros e quaranta cents: due Vivace e un Minuetto. L’Adagio non c’è? Il ragazzo col cappellone a righe si fa una risata stiracchiata mentre mi fa il conto: non mi guarda e pensa “mi ci manca pure il vecchio che fa le battute”. Eppure c’era scritto, ma non tutto è come sembra. Nemmeno il panino, se è per questo. Ma certamente libera endorfine e ti rallegri, divorandolo. Buono. In apnea ti lecchi le dita inzaccherate di una maionese spruzzata di senape, e non sai perché. Il Minuetto procede in punta di cucchiaio, con affondi bastardamente manierati. Cinghiali imbufaliti minacciano da subito le pareti gastriche: falso allarme. Sì, sì vado via. Mamma!

This must be the place – Cheyenne

C’è un posto tra la brughiera e le vigne di Franciacorta in cui il Maestro s’è nascosto inseguito da stelle, cappelli e forchette disperse via via sulla neve come le briciole di Pollicino, nel caso fosse necessario ritrovare la strada. Anch’egli è stato una star, il rock era già finito, comunque lontano dall’odierno scimmiottamento, ma ha saputo svestirsi della parannanza mediatica. La sua piscina è ancora piena d’acqua e ci si può nuotare; certamente non ha occhi tracciati di nero, tantomeno il rossetto. Non sopravvive a se stesso. Gli piace la musica classica e veste di nomi leggeri due McPanini, semplificando la via, di quella semplicità non banale, esente da complicazioni. Non basta una storia per un grande panino, non basta un logo per farne una schifezza: a meno che non si viva in una cucina con una scritta lampeggiante alla parete: Cuisine. Vorrei
però tagliare a piccoli spicchi, su un piatto bordato d’oro, la soffice spugnosità del Vivace e gustarlo con lui, davanti a un dripping di Pollock, in sottofondo una tessitura d’archi di Vivaldi. E, per punizione, sentirci inadeguatamente giovani: perché c’è qualcosa che mi disturba, anche se non so esattamente cosa.

C’è un posto in cui un uomo seppellisce la rock star Cheyenne e il suo fardello, per immaginarsi finalmente figlio, sorridente coi corti capelli brizzolati, senza più ciuffi da sbuffare via.

This must be the place – Cuisine

C’è un posto in cui il Maestro ti sorride ironico, l’occhio birbante: ha la faccia di uno che ha capito, e anche un principio di tristezza in fondo all’anima.

C’è un posto sul mare in cui un blogger, che è stato sbiadita stella nana per un solo secondo, si porta dietro il suo piccolo trolley di ambizioni e disturbi. Solo che ha perso le ruote. Sul monitor del pc un post-it scarabocchiato: sembra che oggi nessuno faccia più un lavoro, tutti fanno qualcosa di artistico. Crudele, e vero, per quanto instabilmente appiccicato su un vetro. Il tipo sorride.

This must be the place.
Hi yo, i got plenty of time…
Guess i must to having fun
Hi yo, we drift in and out
Hi yo, sing into my mouth…
I guess that this must be the place

7 Commenti

  1. Già. La cucina col make-up di una maschera. Come Cheyenne. Complimenti per il pezzo Fabrizio.

  2. Fabrizio complimenti come sempre riesci a rubarmi 30 minuti, tanto mi ci vuole per leggere e rileggere e rileggere e meditare un tuo post. Mica roba da poco oggi ero pure abbastanza incasinato, pensa che pure la tavola con ottimo cibo e’ stata sacrificata. Bravo

  3. Fabri tra una visita e l’altra mi son preso stamane più del tempo necessario a Lido :-)
    Bella sensazione: son volato via dall’ambulatorio e mi son trovato con te.
    Altrove.

I commenti sono chiusi.