Un bicchiere per due / A.O.C Luberon Château La Canorgue Rouge 2011


Luberon Rouge Château La Canorgue

Luberon Rouge Château La Canorgue

di Fabrizio Scarpato

“Picasso mi guarda dal muro, in mutande e a torso nudo. Subito mi accerto di essere vestito, ché non sarebbe un bello spettacolo. Ma non riesco a vedermi. Una Smart gialla sfreccia bizzarra sui saliscendi nei pressi di Bonnieux: sì, ho nel bicchiere il rosso di Château La Canorgue, ma non mi hanno fatto entrare. Sotto i grandi platani, davanti alla villa, non c’era nessuno, non tintinnavano bicchieri, nessuno mi chiamava per pranzare. Sul muro di pietre a secco, un cartello avvisava delle presenza di serpenti. Non sarà il deserto, ma si è alzata una nube di polvere: sono americani col fuoristrada carico di casse di Coin Perdu, il fratello maggiore.

Mi è venuta sete e il rosso farebbe al caso mio: faccio appena in tempo a valutarne la profondità cromatica quasi impenetrabile e appena bordata da un esile riflesso aranciato, che Picasso mi chiede un bicchiere, pieno. Beve e fuma il sigaro, mentre dipinge. Col mozzicone tra le dita della mano sinistra mi fa cenno di avvicinarmi: sulla tela un corpo di donna, la testa piccola e i seni grandi. E il quadro comprende quella tela: sullo sfondo suppellettili domestiche, ricordi di viaggi. Ho anch’io un carretto siciliano, penso. Lui beve a grandi gorgate. Mi tende un pennello intinto d’azzurro, invitandomi a passarlo in quel punto, sotto il corpo della donna. Il mare o il cielo di Provenza. Nonostante siamo entrambi davanti alla tela, mi sembra di vedere una sola ombra.

La Smart gialla mi passa quasi sui piedi, non me l’aspettavo, ché qui siamo a Mougins, a un tavolo della Brasserie de la Méditerranée, occhi bistrati di nero, pelle ambrata di una cuoca Cleopatra, conosciuta a Lerici. Il vino è infatti decisamente speziato, ruvido di terra bagnata e cuoio, ma sostenuto da una certa nota dolce e vinosa che sa di ciliegia in confettura. Poco scorbutico, la grenache venuta a patti col syrah, ma equilibrato. Pablo si siede al mio tavolo in mutande e ciabatte e mi racconta di una donna bellissima, dalla pelle di luna, sdraiata al sole della Costa Azzurra. Non riesce a ricordarne il viso, però, forse perché non l’ha guardato bene, forse perché attratto da altre parti del suo corpo, le braccia, le mani grandi, il seno. Mi chiede di aiutarlo a ritrovarla, perché io sicuramente la conosco.

Picasso a Mougins

Picasso a Mougins

All’improvviso piove su Bonnieux e non ho ombrelli né ombrelloni sotto cui trovare riparo, insieme a Marion Cotillard. Non so quando sono arrivato, né, per la verità, cosa ci faccia lì con me la Cotillard. Bevo il mio vino, che è dritto e potente, passa attraverso la bocca come una folata di vento, lasciando dietro di sé una scia di tannini piccoli e delicati, e una sensazione di verde, di macchia e fiori di campo, forse lavanda, ma sarebbe troppo facile. E’ sapido, schioccante e molto fresco. Non capisco se ho preso a salivare per questo o per la presenza accanto a me della Cotillard. Passa Edouard Loubet fiondato in bici verso Lourmarin, scansato per un pelo dalla Smart gialla che si porta via la bella Marion, lasciandomi lì senza riparo, ma con un bel senso di pimpantezza nella bocca pulita.

Picasso non si dà pace per quella donna, mi toglie il pennello di mano, pregandomi di farmi da parte. Così disegna il profilo della sua ombra sulla tela e prende a riempirla di nero, lasciandola in un atteggiamento sbilenco e attonito, al limite del disperato. Poi beve ancora, non senza sottolineare il finale amaro del sorso, forse per rammentare la propria solitudine, forse per la presenza di un innegabile residuo marino. Ha ragione, penso: e mi perdo come risucchiato nei colori salati del quadro. Ma mi distraggo nel riconoscere dettagli familiari nel corpo di quella donna. Mi avvicino sperando di essermi sbagliato. Questa volta il pennello è nero: in fondo è facile. Tocca a me: e l’ombra, per trasposizione, diventa la mia, e il nero si infittisce di un’angoscia non prevista, ma crescente, quanto più, attimo dopo attimo, mi rendevo conto che quella donna eri tu. E più davo corpo all’ombra, più avevo la sensazione di perderti; più Picasso sghignazzava come sollevato di un peso, più avevo la certezza di morire. Perché un’ombra non ha niente a che fare con le cose e tanto meno con le persone, perché il tuo bianco era l’opposto del mio nero”.

Pablo Picasso, L'Ombra (1953)

Pablo Picasso, L’Ombra (1953)

Lei, ormai sveglia, mi accarezza materna e mi mette la mano sul cuore in tumulto. Sarà la suggestione della Provenza, il vino, il cinema, l’arte, i colori: tutto racchiuso in una bottiglia di vino, bevuta senza risparmio. “Però era buono” dice sorridendo. La bacio. Le sue labbra sanno di peperoncino piccante.

 

Crediti

M. Mazzucco, Il Museo del Mondo: L’ombra nera di Picasso. RCult, La Repubblica