Un bicchiere per due / Vino Rosso Çericò 2009, Walter De Battè per PrimaTerra


Çericò 2009, Walter De Battè

Çericò 2009, Walter De Battè

di Fabrizio Scarpato

Un ultimo bicchiere, per scaldarsi. Il vino s’era fatto rubino profondo, sino al cuore, l’unghia appena marcata d’arancio. Fissò lo sguardo sugli archi che scendevano lenti, sottili e inesorabili. Anche lui quella notte avrebbe voluto essere così, deciso e trasparente, quasi invisibile, o meglio inavvertibile, ché il cinghiale ti sente, ti annusa, molto prima che tu possa vedere lui. Ripose nello zaino una corda, un coltello, una torcia e un piccolo thermos di caffè. Poi alcune strisce di semplice focaccia, come sempre, per mangiare qualcosa senza dare nel naso dell’ungulato. Nella tasca della giacca infilò una fiaschetta che riempì di quel vino appena bevuto: non solo gli sarebbe stato di conforto, ma arrivò a pensare che gli sarebbe stato utile nel mimetizzarsi nel bosco, tanto erano intense le note di rami verdi e erbe aromatiche, mischiate a menta e carrube. Magari versandosene un po’ addosso si sarebbe confuso meglio con l’ambiente circostante. Rise, ma storto, perché era teso come una corda di violino, per quell’uscita all’aspetto in solitaria, alla ricerca del vecchio cinghiale maschio che aveva sconvolto la sua campagna, e che forse, sempre che gli fosse scesa la puzza di adrenalina, avrebbe potuto incontrare, quella stessa mattina, all’alba.

Cristo se gli piaceva l’uva. C’era da faticare un po’ per entrare nel vigneto, ma poi era una scorribanda senza pensieri, al pulito, palo più, palo meno. Forse per l’ultima volta avrebbe lasciato tracce, per indicare la strada al branco dei giovani rossi e delle scrofe coi loro piccoli. Poi sarebbe passato attraverso la macchia a stanare serpi, grufolando tra la sterpaglia e spezzando rami secchi; si sarebbe impregnato il vello dell’odore del timo e del rosmarino, avrebbe schiacciato amarene e divorato pomi rossi, si sarebbe profumato di liquirizia, lasciando dietro di sé una scia balsamica, imbrattata di terra, puzzolente di cuoio. Al rivolo d’acqua prima della piccola radura si sarebbe ripulito ben bene, rivoltandosi nel fango, cauterizzando le ferite, per tornare sazio alla sua buca, all’alba, prima che facesse giorno.

Il cinghiale aspettava

Il cinghiale aspettava

Era notte fonda quando si avviò verso la collina. Si faceva strada a memoria: spaccava arbusti, struciava sui cespugli. Cercava il rumore, per farsi compagnia e allontanare un fastidio, ma soprattutto perché il bosco gli piaceva, e camminarlo era una strana forma di colloquio, muto. Bevve un sorso di vino e ritrovò la stessa secchezza dei rovi, l’odore della terra bagnata, la fibrosità delle radici, il dolceamaro della china e la ruvidezza gentile dei tannini; passò goloso la lingua sul palato, ripescando stille di pepe, e caffè, e gocce di cioccolato, perse in un corpo snello, dalla dolcezza irrisolta, innervato da una vena salina che faceva da richiamo irresistibile. Giunse al limitare del bosco di cerri e si fermò, in un’altana naturale che gli consentiva ampia visuale sulla radura al confine con la macchia. Si sedette, sistemò lo zaino come appoggio per il suo fucile, mise il colpo in canna e si acquattò tra i cespugli, appoggiandosi a un tronco. Era ancora presto e mangiò un po’ di focaccia: era troppo croccante. Si morse la lingua e bestemmiò, non tanto per il dolore quanto perché da quando sua moglie lo aveva lasciato, la focaccia non era più la stessa. E anche quello, in fondo, era una specie di dolore. Poi si rannicchiò, cercando invano di non respirare.

Si era avvicinato alle querce per raspare via il fango dal mantello e per fare incetta di ghiande. Strusciandosi contro una corteccia realizzò che una ferita non era ancora rimarginata, e tantomeno quella nel suo orgoglio di vecchio maschio capobranco. Un giovane irsuto gli aveva ficcato una zanna sotto il collo: non s’era spaventato ai suoi grugniti, l’aveva sfidato e s’era portato via la scrofa. Fece un giro largo: non aveva fretta di mettersi al riparo. Anzi, trovò modo di respirare il bosco e l’erba umida del primo mattino, raccattò qualche corbezzolo e si diresse verso la radura. Si fermò poco prima di uscire dal bosco di cerri, soffiò forte e si voltò verso l’alto, alla sua sinistra: aveva fiutato il pericolo, o piuttosto aveva avvertito uno scricchiolìo strano, poco familiare, ma sufficiente per metterlo in allarme. Un attimo dopo sentì che il branco da cui s’era allontanato stava arrivando di gran lena: seppe subito cosa fare.

Corbezzoli

Corbezzoli

Ormai si cominciava a vedere qualcosa. Se ne stava coperto sottovento, quando nella macchia vide un’onda di baccano: era il branco, ma a lui non interessava. In un batter d’occhio tutto si quietò, si sentì uno sbuffo forte e vide un’onda più calma che tornava indietro, da dove era venuta. Poi, lentamente, al piccolo trotto, entrò nelle radura lui, il solengo che aspettava, grosso, le difese ricurve: aveva già la carabina tra le mani, tese lentamente il grilletto e rimase come sospeso. L’animale alzò la testa verso di lui, offrendogli facile bersaglio sul tronco. Non grugniva, né sembrava intenzionato a caricare. Aspettava. I due si sentirono, per un lungo istante si annusarono, ascoltarono, in silenzio, le rispettive solitudini. Un lampo improvviso, il botto di uno Steyr Stutzen alla sua destra e il vecchio cinghiale si ribaltò su se stesso. Qualcuno con meno pensieri aveva premuto il grilletto fino in fondo. Anche lui si rigirò supino, quasi sdraiato e immobile dietro l’albero: non aveva con sé indumenti che lo rendessero riconoscibile in mezzo al fogliame. Non gliene importava nulla. Respirava piano, aspettando che passasse la cagnara.

Bevve tutto d’un fiato quel che rimaneva del suo Çericò. Non avvertiva particolare freschezza, né gli interessava che il suo palato lo ricordasse per un certo numero di secondi. Gli bastava sentire, nel profondo dell’anima, che in quel sorso c’erano tutti i profumi, gli odori, i rumori di quelle sue ultime ore, compreso un sentimento di lotta e di selvatica libertà, di fatica e di immedesimazione con la sua terra. E questo era più che sufficiente per riprovare a vivere. Si alzò appoggiando la schiena al tronco di quercia e si tolse il berretto di lana. Il sole stava spuntando sopra le Apuane. Chiuse gli occhi e respirò a fondo il vento salato che saliva dal mare.

2 Commenti

  1. Ritrovo, a tratti, una novella del “mizio” tratta da Chiaro di Luna, anche lui come te, pur essendo cacciatore, aveva grande sensibilità e profondo rispetto per gli animali…e per il vino.

  2. ciao fabry, non avevo ancora letto cerico 2009, grandioso come sempre sai fare, pensa ad una raccolta, come il libriccino rosso…

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