Viviana Sirigu, una storia sarda a Terra Madre


Coccoi Pintau: a Orroli i pani delle nozze si fanno con un lievito madre di 300 anni

dall’inviata a Torino Monica Piscitelli

“Il grano è re” disse Fernand Braudel parlando del Mediterraneo. Se questo è vero per le popolazioni del Mare Nostrum in generale, in Sardegna il grano, e con esso il pane, è quasi oggetto di venerazione. “Finché sono stata signorina, mi è toccato di fare il pane in casa. Questo voleva nostra madre, e questo bisognava fare: non per economia, (…), ma per tradizione domestica: e le tradizioni domestiche erano, in casa nostra, religione e legge. Dura legge, quella di doversi alzare prima dell’alba, quando il sonno giovanile ci tiene stretti stretti nelle sue braccia di velluto e non vuole assolutamente abbandonarci! (…) Ma passato il primo momento la faccenda prendeva il suo ritmo quasi di festa (…)” scrive la scrittrice nuorese Grazia Deledda nella novella “Il pane”.
Il rispetto e la passione che ancora oggi è riservato a questo alimento, affonda le proprie radici in quella forte tradizione agro-pastorale, segnata da fatiche e stenti, in cui il “companatico” era raro. Ma se non c’è turista che di rientro da un viaggio nella seconda, per grandezza, delle isole del Belpaese, non si riempia la bocca di “Pane Carasau” per mostrare la propria conoscenza delle locali tradizioni, pochi comprendono davvero l’essenza del rapporto tra i sardi e il pane.
Per ognuna delle feste che scandiscono la loro vita, dalla nascita alla morte, c’è n’è uno. Un pane speciale. Modellato per rappresentare figure, metafore o le stesse occasioni per le quali è creato. “Il pane si fa segno, ed oltre che buono da mangiare, si fa buono a comunicare, e cioè capace di veicolare immagini o più esattamente significati che sono diversi dal semplice ed elementare significato di essere se stesso, e cioè pane da mangiare” (Alberto Mario Cirese in “Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna” – Ed. Ilisso).
Nella Sardegna centrale, nella Barbagia Seulo (da “Barbaria”), i “Coccoi pintau”, sono l’espressione paradigmatica di quest’arte plastica effimera e pregevolissima, che diviene ornamento della casa, orgoglio degli sposi e strumento per manifestare il proprio prestigio al paese in occasione delle feste. Per mantenere viva questa tradizione, ad Orroli, paesino di 3000 anime in provincia di Cagliari, che vanta il primato di avere gli ultrasettantenni più attivi d’Italia, oltre a una delle più alte concentrazioni di ultracentenari, la signora Viviana Sirigu, ha avviato dal giugno scorso un laboratorio-museo nel quale fa i pani della tradizione locale. Fra gli altri anche: “Moddizzosu” (pane di grande morbidezza, dalla mollica di colore bianco e dalla crosta scura); “Pani ‘e Saba” (ciambelle impastate con le mandorle, l’uvetta e lo sciroppo ottenuto dalla bollitura per molte ore a fuoco lento del mosto d’uva, del succo del fico d’india o del miele, la “Saba”), “Coru de Grazia Deledda”, “Kentos” (pane dei centenari) e “Amarettus”. La struttura creata da Viviana, si è trasformata in centro di attrazione e operativo delle donne del paese che collaborano, specie in occasione delle commesse più grandi, alla preparazione dei pani secondo la propria esperienza. Per fare 40000 Coccoi Pintau per un “Crispesu” (una sorta di albero della cuccagna da cui pendono i pani che veniva portato in dote dalla nuora alla suocera) occorrono 6 mesi di lavoro. Mi racconta Antonello, il marito di Viviana.
Siamo nel cuore della civiltà nuragica e della Sardegna, in un territorio incontaminato caratterizzato da rada macchia mediterranea utilizzata da sempre per il pascolo, ad un passo dal grandioso Nuraghe “Arrubiu” (“rosso”, per il colore conferitogli dai licheni che ne ricoprono i grossi massi di basalto) e dai laghi del Medio Flumendosa e Mulargia, e dal Parco “Su Motti” .
In ognuno dei Coccoi Pintau di Viviana – c’è un pezzetto di storia di famiglia. Non è solo una bella frase da utilizzare in una brochure promozionale: questi pani-scultura, oltre ad essere fatti secondo gli insegnamenti della mamma, contengono il lievito madre della sua trisnonna. Hanno trecento anni di vita, insomma, eppure sono freschissimi. Come i vecchi del paese. La pasta – fatta mescolando la semola della pregiata qualità Senatore Cappelli, che Viviana produce nei suoi cento ettari di proprietà; acqua e lievito madre, è lavorata lungamente per far si che diventi bianchissima e fittissima. Solo eliminando quanta piu’ acqua possibile si può darle la forma voluta: ghirlande di fiori e frutti, delicate foglioline, boccioli di fiori, esili ramoscelli su cui sono poggiati uccellini, oppure fedi nuziali e altri motivi religiosi. Sulla raffinatezza e abbondanza dei Coccoi Pintau prodotti e regalati, la suocera misura l’abilità della promessa sposa e, il vicinato e gli ospiti, il prestigio della famiglia.
I decori sono elaborati con l’uso sapiente di semplici strumenti: un coltellino, una forbicina e una “sarretta” (bastoncino con una rotellina seghettata, come quella per tagliare le focacce). I dettagli più minuti sono realizzati solo dalle donne più esperte, le anziane in genere, e aggiunti appena dopo la lievitazione. Pochi secondi prima di andare in forno. Ne risulta un raffinato gioco, di ricami e merletti di pasta, di minuterie che ricordano la ceramica di Capodimonte, con la quale condividono il destino di oggetto ricordo o benaugurante. Con la sola differenza che questi si possono anche mangiare. Subito, o con calma dopo averne goduto la bellezza.
Anche dopo molto tempo, infatti, si possono bagnare, mi racconta Viviana, e tornano come freschi.
Tornano a vivere, grazie al lievito madre.

La terra dei Nuraghi srl
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