I nove vini che hanno fatto conoscere il Sud fuori dal Sud

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Pensavo ad un post di alleggerimento, è stato uno dei più complicati. Per realizzarlo ho dovuto consultare vecchie guide, fare diverse telefonate agli amici che ringrazio per le indicazioni e le precisazioni.
Due lezioni.
La prima è che la storia vitivinicola del Mezzogiorno deve essere ancora studiata e scritta nei dettagli, con cifre e riferimenti precisi usando le fonti, come si diceva un tempo, e non le sensazioni umorali del momento. Per farlo è necessario lo slalom tra le stupidaggini, le imprecisioni e anche le bugie, che la maggioranza delle aziende scrive su se stessa in depliant o che racconta durante le visite. La seconda è che internet serve per cogliere idee, tendenze, indicazioni anagrafiche, ma è assolutamente fuorviante quando si tratta di ricostruire qualcosa degno di finire negli scaffali con buona pace degli assatanati del 2.0
Allora, questi sono, ovviamente a mio parere, i vini che hanno cambiato la percezione del vino del Sud fuori dal Sud e poi dentro il Sud. Quelli cioé che hanno forgiato quella carica comunicativa necessaria a far conoscere il territorio dove è nata la viticoltura europea e che, secondo molti, si accinge ad essere la nuova frontiera grazie alla varietà del suo territorio e del patrimonio genetico, le fertilità delle aree campane, vulturine ed etnee, la dimensione produttiva di Puglia e Sicilia. Prima di questi vini, il Sud era un mare di sfuso e di mosto, a volte rovesciato nelle strade dai contadini francesi esasperati dalla concorrenza low cost, al netto ovviamente di alcuni chicche, necessarie ad una ricostruzione storica, ma dalle quali non è gemmata la spinta che cerchiamo di individuare in questo post.

Patriglione, 1975 Cosimo Taurino
Questa storia ricorda i libri di fantascienza di Julius Verne. Già, perché 35 e passa anni fa, prima della crisi del metanolo, era assolutamente inconcepile pensare che un vitigno del Sud avrebbe potuto avere dignità di bottiglia importante da esibire con orgoglio a tavola. E ancora più fantascientifico assistere all’incredibile successo di questo vino, blend tradizionale di negroamaro e malvasia, ancora oggi ineguagliato. Il vero blend è l’unione tra Cosimo Taurino e Severino Garofano, accoppiata tra vigneron ed enologo da manuale, capace di toccare il giusto equilibrio.


Graticciaia 1986, Agricole Vallone
Ancora un fantastico duo, Donato Lazzari e Severino Garofano, sempre lui, per un negramaro lavorato in surmaturazione, ancor prima che l’Amarone facesse scuola a livello nazionale su questo segmento. A uve di potenza è stata data altra potenza, progetto omeopatico baciato da grande successo.


Cabernet Sauvignon 1988 Tasca d’Almerita
Il progetto parte prima della crisi del metanolo: il primo impianto infatti risale al 1984. All’epoca la Sicilia, non parliamo del resto del Sud, era conosciuta per le grandi masse di mosto e sfuso, oltre che naturalmente per i vini dolci schierati sugli scaffali dei supermercati a buon prezzo.
L’adozione del Cabernet fu una scelta strategica, riuscire a far parlare il territorio siciliano in una lingua comprensibile ovunque nel mondo. Le perfomance di questo vino nel corso degli anni sono state straordinarie, nelle degustazioni internazionali alla cieca è sempre emerso con punteggi alti. E ancora oggi rappresenta, insieme allo Chardonnay, uno dei pochi storici disponibili in Sicilia.


Gravello 1988, Librandi
Anche la Calabria dice la sua grazie al duo Severino GarofanoNicodemo Librandi. Nasce un vino che è una sorta di mediazione rispetto tra lo schema di  Tasca e i due pugliesi: blend di uve autoctone e internazionali. Cioé Cabernet Sauvignon e Gaglioppo. Il riscontro è molto positivo, per la prima volta si accende un faro sul vino calabrese rimasto sinora al buio.


Villa Gemma 1988 Masciarelli
L’enorme capacità di proiettarsi all’esterno di Gianni Masciarelli ha aperto la miniera Abruzzo ai visitatori italiani ed esteri. Con lui il Montepulciano acquista spazio e visibilità sulle tavole importanti. E’ tra i primi ad introdurre la barrique in uno skyline di cisterne e autobotti dirette in Toscana e al Nord.


Montevetrano 1992 di Silvia Imparato
Il rosso di Silvia Imparato fonda la Campania vitivinicola moderna, prima di allora conosciuta per i vini di Mastroberardino, D’Ambra e Moio. Da uve cabernet e merlot e poi di aglianico, l’impresa si ispira al modello bordolese che ha dominato gli anni ’90 in Italia. Il successo è davvero strepitoso, risponde al bisogno della critica internazionale di trovare qualcosa di nuovo rispetto ai soliti nuovi, il fatto che sia prodotto al Sud conferisce fascino ed esoticità: l’alta qualità consente al Montevetrano di raccogliere una impressionante messe di riconoscimenti che lo collocano stabilmente tra i primi vini italiani. Nessun vino del Sud può vantare questa perfomance.


Taurasi Macchia dei Goti 1994, Caggiano
Prima di Antonio Caggiano esisteva il Taurasi, ovviamente grazie alla lungimiranza di Mastroberardino, ma non Taurasi. Fu lui a convincere Luigi Moio a tornare da Bordeaux e, insieme, introdussero le prime barrique nell’areale: prima di allora nessuno fuori dalla Campania aveva considerato l’aglianico come un vitigno capace di esprimersi con eleganza e finezza. Una vera rivoluzione culturale anche la concezione della cantina, la prima ad essere costruita per ricevere visitatori, che portò i primi curiosi a visitare Taurasi, il centro storico e il castello allora diroccato e la proprietà Salae Domini.


Etna Bianco Pietramarina 1995, Benanti
Questo strepitoso cru quasi a quota mille da Carricante ha dimostrato come sia possibile ottenere vini bianchi nel Mezzogiorno con uve autoctone. Ma non solo, Benanti ha aperto le porte ad una Sicilia inedita, l’Etna. Il terroir che già produceva eccellenze ai tempi dei romani grazie al suolo e che sta togliendo gli schiaffi di faccia ad una regione che ha puntato eccessivamente non solo sulla omologazione ma anche sul low cost, riportando in qualche caso, indietro le lancette dell’orologio. Anche qui decisivo l’equilibrio del rapporto tra Benanti e l’enologo Salvo Foti.


Fiano di Avellino 1999 Clelia Romano
Il principe dei vitigni bianchi in una annata eccezionale, sicuramente la migliore per il Fiano da quando si ha memoria certificata in una interpretazione magistrale di Angelo Pizzi. Se Mastroberardino l’ha conservato e i Feudi lo hanno fatto conoscere fuori dalla Campania, è con  Clelia Romano che si comprendono le potenzialità di questa uva su questo erritorio: ampiezza e complessità coniugate alla capacità di allungare il passo nel tempo.


Riassumendo: su nove vini, tre (Montevetrano, Gravello e Cabernet di Tasca) vedono prevalere gli uvaggi internazionali. Uno solo (il Fiano), non conosce legno. Tutti gli altri passano per il legno piccolo. La classifica degli enologi consulenti è pilotata da Severino Garofano con tre vini su nove, poi Riccardo Cotarella, Salvo Foti, Luigi Moio, Angelo Pizzi.
Scorrendo la cronologia, possiamo anche mettere dei punti: la Puglia e la Calabria non sono riuscite a creare nuova classicità, l’Abruzzo è continuamente in bilico tra eccellenze paradisiache e tsunami low cost omologato, la Sicilia e la Campania si erano affacciate in un modo ma ora si stanno affermando in un altro e rappresentano le novità più dinamiche grazie a due territori molto circoscritti, l’Irpinia e l’Etna.
Infine prevalgono i rossi, ma le promesse sono bianche.



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