
di Teresa Mincione
Il tempo nel mondo del vino è un aspetto delicato e di notevole importanza.
Al tempo, inteso come tempus fugit, è affidata la maturità dei vini. Al tempo, è consegnata la loro evoluzione o involuzione. Un Giano bifronte che in alcuni casi è vettore di emozionanti espressioni, in altri, nient’altro che un’occasione mancata prima dell’ultimo addio alla curva del possibile bere.
Nell’ equazione kronos le variabili annata, terroir, vitigno, microclima, esposizione, suolo, giocano un ruolo straordinario, ma l’incognita tempo è quella che arriva sul finale della traiettoria. E’ quella che consegna il risultato dopo il tanto atteso “svolgimento”. Solo il trascorrere, come una messa a fuoco in uno scatto, ha il potere di raccontare cosa sia realmente un vino.
Trentacinque (anni), nel mio caso, è stata l’incognita di Agioritikos della cantina Tsantali. Annata in etichetta 1986. Che assaggio sorprendente! Una sorpresa nel bicchiere e nel suo passato. La famiglia Tsantali è una tra le più antiche famiglie produttrici di vino in Grecia, che da sempre non ha mai nascosto la propria predilezione per i vitigni autoctoni. Evangelos Tsantali, una delle figure più carismatiche nella storia dell’enologia greca, vignaiolo e pioniere del mercato viticolo greco, nel 1981 segnò la storia viticola greca con il suo Agioritikos. Fu il primo vino greco ad esser riconosciuto vin de pays. Si racconta che da viticoltore abbia sempre avuto un unico grande obiettivo: promuovere l’identità dei vini e distillati greci. E con Agioritikos, l’obeittivo è statao raggiunto. Una storia vinicola lunga più di 130 anni quella della cantina Tsantali che, dal 1890, porta con se, lungo il cammino del tempo, importanti traguardi e riconoscimenti. Agioritikos è un vino che rientra nella denominazione PGI (Indicazione Geografica Protetta) Monte Athos e proviene da un vigneto lì coltivato di ben 70 ettari esposti a sud-est. Il corpo principale delle vigne si trova ad un’altitudine di circa 250 – 300 metri sul livello del mare, la restante parte, invece, sfiora i 400 mt. Assyrtiko, Roditis e Athiri i vitigni autoctoni a bacca bianca dai quali prende vita. In piena filosofia Tsantali, gli autoctoni godono di quel particolare microclima in cui mare e montagna si fondono all’unisono in una terra silenziosa quanto sacra. Ai calici. Trentacinque anni andavano digeriti e ho lasciato che il vino si sgranchisse a dovere. Il tempo si è incarnato nel colore, nelle espressioni olfattive e gustative, ma, a sorpresa, con un linguaggio sorprendentemente longevo.
Ambra luminoso. Note terziarie di iodio, cera d’api, burro fuso. Sentori di scorza d’arancia candita, ginestra appassiata, zafferano essiccato, paglia secca, caramella mou. Una sottile trama di affumicatura ha fatto da sfondo nel profondo del bicchiere. E ancora tracce di ginestra appassita e camomilla disidratata, cappero essiccato. Il sorso? Che meraviglia. Un equilibrio sorprendente ben evidenziato da una precisa e gradevolissima mineralità nonostante il tempo. Salino anche in lunghezza, dalla spalla acida incedibile. Grande piacevolezza di beva. In chiusura tocchi di miele di castagno. Eppur si muove, avrebbe detto Qualcuno. Gli autoctoni sono da sempre una grande preziosità (forse sottovalutata anche in Italia), e in questo caso, anche rispetto al tempo. Un calice che definirei un incastro perfetto tra avvolgenza, equilibrio, sapidità e lunghezza. Cosa è stato bere un Agioritikos 1986? Avere l’occasione di ascoltare una narrazione seducente ispirata al senso del luogo e del tempo.
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