Carnevale: dì laudato a chi ave lu puorco!

Pubblicato in: Minima gastronomica

di Tommaso Esposito

<< Vien carnevale, e specialmente i giovedì sono i giorni prescelti. Anzi a bella posta, si sono battezzati con diverso nome. E tutto va a finire a pappatoria. Se non m’inganno, vien primo ”giovedì dei compari”, perché in origine si pranzava da costoro; poi ”giovedì de li parienti”, per una ragione somigliante; indi ”giovedì muzzillo”, nel quale ”chi nun tene renare se mpegna e figlie”; e finalmente ”giovedì grasso”, forse perché si adopera maggior copia di carni. In questo periodo, in alcune famiglie, si suole uccidere un maiale, ponendone a parte gli intimi.>>
Così, Gaetano Amalfi sul finire del 1800 descriveva il carnevale nel suo “Tradizioni ed usi nella penisola sorrentina”.


E così ancora oggi il carnevale è vissuto  in quegli antichi cortili contadini, in molti paesi della Campania, laddove sopravvive incontaminata la nostra memoria folklorica.
Qui, ho avuto modo di verificare girando in lungo e in largo la nostra regione,  quanto l’ uccisione del maiale, per settimane e settimane accuratamente ingrassato in famiglia, rappresenti tuttora un vero e proprio rito sacrificale, durante il quale l’ animale viene immolato sull’ altare della cucina domestica e tradizionale.

Il suo sangue raccolto, manipolato, separato dalla fibrina, o ”spogna”, affinché non coaguli diviene ingrediente fondamentale del sanguinaccio, insieme al latte, alla cioccolata, allo zucchero, al cedro, alla cannella. Altro sangue viene cotto in acqua bollente per ricavarne dei pani che, tagliati in sottilissime fettine, sono mangiati fritti cosparsi di sale e peperoncino.

Del resto,  le carni del maiale, il suo grasso, ogni parte del suo corpo assumono significato propiziatorio e vanno in piccola quantità offerte, quasi come uno scambio eucaristico, ai vicini di casa: un po’ di fegato avvolto nella ”rezza” e ornato di lauro, un po’ di lardo, un po’ di sangue cotto, qualche ”tracchiulella”, cosicché  ”dì laudato a chi ave lu puorco!”

Poi, consumate queste scambievoli cerimonialità, sopra il focolare, in quei grandi pentoloni di rame, si avvia la lenta, paziente cottura del lardo per ricavarne la ”nzogna”.
Sì proprio la sugna, che, esaurito e dismesso il suo potere terapeutico nella cura del fuoco di Sant’Antonio, ancora oggi resta il condimento base di numerose pietanze ritualmente legate al ciclo del carnevale campano come, la ”zuppa forte ‘e zuffritto” o il migliaccio dolce di semola, uova e ricotta, oppure il migliaccio di ”farenella”, la farina di granturco, farcito con uva sultanina, pinoli, formaggio e cicoli.
Una pietanza quest’ultima, che, insieme al sanguinaccio, Giulio Cesare Cortese nel 1500 amava spesso richiamare alla memoria dei suoi lettori:
<< Na zetella ionnolella, addorosa de migliaccio,
la farina cerne e affina pe la panza de setaccio.
Carnevale dillo mo’: colarine e sanguinacce,
lo pane unto che le fa, bene mio! E li migliacce
pe chi st’alma se desfà.
Tu sulo puortece
e tu cunfuortece
co na grassa libertà!>>
Grasso e sangue, dunque, come cibo e morte: un accostamento ordinariamente azzardato, che nel carnevale campano diviene normalitá.

E’ forse il segno che almeno una volta all’anno anche la gola debba concedersi una straordinaria licenza e il corpo, più che lo spirito, possa godere una ”grassa libertà”!


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