Cinque Terre Costa de Sèra 2011 / Cantine Litàn

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Come si fa a parlare d’amore? Chiudi gli occhi, come prima di un tuffo da dieci metri, o ti acquatti in un angolo per pudore. O paura. Le parole pesano, questa più di tutte. Macigni d’amore, sull’amore, sulla Via dell’Amore. L’ho camminata tutta, una notte d’estate, a piedi nudi, come il bambino che scarabocchia la pagina per ripicca: capricci, senza speranza. Forse un timido tentativo di ritorno al futuro: sfrondare gli orpelli, in cerca di naturalezza, di una briciola di verità.

Poi nel buio ho visto le ringhiere e le reti di contenimento devastate da migliaia di lucchetti, imbrattate da bigliettini e fiocchi di stoffa, in una onirica visione ortopedica, esiti di sanatori abbandonati, ottonismi da caserma, ex voto per amori sicuramente andati a male, finiti, lisi. Eppure da sbandierare, quasi che quella legittimazione ferrosa li potesse rendere eterni, agli occhi degli altri, più che ai propri cuori. Apparire, nel Grande Fratello dell’amore: ignari del sentimento di abbandono destato da quella ferraglia, insensibili all’incuria della terra, solo cinquanta metri più in alto, lassù al confine col cielo. Terra che non conta, dimenticata, disamorata: ché l’amore va costruito, protetto, coltivato.

Basterebbe allora guardare i costoni a levante di Riomaggiore, speculari e simmetrici rispetto alla Via dell’Amore: lo chiamano Il Giardino di Litàn, e il semplice suono di quel nome porta una sorta di pace nell’animo affaticato. Eppure devono esser servite tonnellate di faticosa passione per recuperare quelle piane a strapiombo sul mare curvo del Canneto, giù, giù fino all’orlo della falesia: di quelle cose che aprendo le braccia nel vuoto potresti sembrare Jack Nicholson che si sporge dalla funivia del Montjuic in Professione Reporter. D’altra parte lo sappiamo che “la costruzione di un amore taglia le vene delle mani e mescola il sangue col sudore, se te ne rimane”. Su per la Costa de Sèra c’è di che rimanere prosciugati.

In effetti il bicchiere è asciutto, attraversato da scintille dorate, ma in trasparenza indovini striature di verde che rammentano la freschezza di una mela granny e delle susine di San Giovanni: frutti piantati su profumi di terra bagnata, quasi muschiosa, nascosta nella macchia e negli orti spontanei, tra salvia e foglie di pomodoro, e perché no, di peperone. Al fondo, forse la dolcezza scorbutica del fico d’India, che cresce lì, a fianco delle scalinate, ai piedi dei muri a secco.

Nonno Litàn, i nipoti: circa sei anni per ricostruire il giardino sospeso tra cielo e mare. Lo chiamano coraggio, forse è vero amore, alimentato dal vento che soffia da meridione. E lo senti nel sorso salato, nella sincerità minerale del finale timidamente amaro. Ma certi giovani sanno guardare lontano e fare tesoro delle parole dei vecchi per riuscire a disegnare una propria strada: deve essere questa capacità che dona a questo vino una morbidezza e una pienezza un tempo sconosciute. Da questo equilibrio non riesci a liberarti: la grande bevibilità si diffonde per tutto il palato, il vino si stira, si allarga ad occupare ogni anfratto, una punteggiatura piccola e rotonda, artefice di quell’appagamento che fa schioccare la lingua, sedotta da soffi di miele e lattescenze di noci e nocciole, nel ricordo inebriante di sensazioni tattili, estive e stranianti, come di sasso di battigia, arroventato dal sole.

Apparenza e realtà, nei gesti d’amore, nella conquista del tempo. La storia racconta che il nonno Litàn, con gli occhi scintillanti, apostrofasse gli amici dicendo “…e te te creidi che ‘r barone de Rothschild i staga mejiu de me?”. Vaglielo a spiegare a quei giovani cuori chiusi da tristi lucchetti, spettacolarizzazione pornografica di amori atrofizzati e già irrimediabilmente arrugginiti.

 

 


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