Colonnata, apologia del lardo e i contrasti dell’anima

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

 

 di Fabrizio Scarpato

Lo scooter arranca sbuffando, il sole trapassa gli occhi, in un candore abbacinante. Salire verso Colonnata è come scendere all’inferno: tra lastroni di marmo, ravaneti e pietraie scoscese, blocchi abbandonati in un intrico di cavi, caterpillar e carrucole arrugginite, la polvere bianca si insinua, avvolge, difende le montagne affettate come torte alla panna, assemblate in un gigantesco Lego di pietra.

Cava n. 169: il cartello ingiallito e ammaccato precede il vuoto di una gola annerita, segnali stradali con nomi infernali: Fantiscritti, Capraia, Fossacava, Calagio, Gioia. Sì Gioia.

Colonnata ti sbuca dopo due tornanti secchi, appena passata qualche baracca di souvenir: aspro e stretto, quasi tutto a sasso, il paese si incunea tra montagne sbocconcellate e incappucciate da nuvole nere. Le asprezze della vita dei cavatori rimbalzano nella durezza di una parlata zeppa di zeta, e, per contrappasso, in modi e sorrisi schietti e gentili, ma soprattutto nella quadrata morbidezza del lardo di conca, umile companatico, tra un pomodoro e un fiasco di vino, necessario per sopportare la fatica sconciante della cava e della lizza.

Il sole picchia, riflesso dal gigantesco biancore tutto intorno; le stradine, anzi la stradina che attraversa il paese è fresca e brevissima: un divertito parlare tra il genovese e lo spagnolo ci conduce sotto un albero di cachi, a sedere tra tavolacci, panche e tovaglie a quadri , davanti una bislunga di affettati e gnocchi fritti (che poi son sgabèi, ma, chissà perchè, son quadrati invece che lunghi un palmo).

 A servire, un uomo simpatico, rauco di cicche rollate, che trova modo di soffiare in un’armonica una piccola danza per festeggiare due sposi novelli: ha l’aspetto di uno che ha capito parecchio, perché la sua faccia ricorda il crollo di una diga (cit.). Stai a vedere che all’inferno ci si diverte, penso, mentre mi avvento su un lardo non eccelso, un salame alle erbe e una stupenda carne stagionata che profuma di funghi.

Colonnata ha un’anima. Averlo saputo, sarebbe stato da consigliare al professor Maurizio Ferraris che laggiù, a Sarzana, il giorno prima, al Festival della Mente, aveva srotolato un gomitolo quasi sillogistico per spiegarci dove si trova e come si manifesta l’anima. Un filo che ha legato lo spirito, una farfalla nel vento, al pensiero e alla memoria: la mente come una tabula, una tavoletta scrittoria su cui si iscrivono le impressioni. Avere un’anima, possedere uno spirito, significa ricordare, ossia ricorrere alle iscrizioni che si depongono sulla tabula che abbiamo in testa. Dare un senso.

Scrivere, ricordare, registrare, archiviare: la nostra anima assomiglia a un libro, in cui si accumulano scritti, memorie e immagini. Fu Platone a paragonarla a un libro: non ne aveva idea, ma sembra un libro “animato”, un a-book: allora, tanto vale dire un iPad.

L’anima come un iPad, puro deragliamento pop, una coincidenza che mi accende il bonus quando scopro che quel posto sotto l’albero di cachi, tra sgabèi, salumi e pecorino si chiama Lard Rock Cafè, t-shirt iconeggianti comprese. Disco inferno. L’anima di Colonnata nel Lard Rock Cafè, dura e pura.

Ma Colonnata è un’anima. Ha in sé il senso della memoria: inciso sul marmo. Sarà per questo che una lapide ricorda i compagni anarchici, un’altra giù a Fantiscritti i partigiani cavatori, sarà per questo che in un bar c’è un calendario con la faccia del “Che”. Anche il lardo è iscritto nelle conche di marmo, ne prende la forma, ne è espressione, è testimonianza di fatica. Colonnata stessa è incastrata e scritta sul marmo.

Vittorio Sereni scrisse che l’anima non è che una fitta di rimorso: un dolore che nasce essenzialmente dalla possibilità di ricordare: senza memoria non c’è rimorso, non ci sono affetti, non c’è soggetto, non c’è cuore, non c’è niente. Niente nessuno in nessun luogo mai.

Il peso della responsabilità, ricerca di identità: qualcuno, non ho contato quanti, non ce l’ha fatta. Restano nomi e saluti, e piccoli mazzi di fiori sul parapetto del ponte di pietra davanti a Fantiscritti.

Cave di Gioia, cave di dolore: leggerezza e durezza. Vita.

Crepe nella pancia della montagna, tunnel appena illuminati, sensi unici a uscire dall’inferno, a ritrovare il verde dei boschi di castagni, a rivedere il mare.

Lo scooter canta, le scarpe lasciano impronte bianche, ti brucia la faccia, ti brucia l’anima, che lassù s’è sgranchita e rianimata: metto su una carbonara con pancetta vergazzata.


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