Come un tempo, l’Eremo di San Vitaliano, è luogo di silenzio e riflessione, di ascolto profondo e visioni che nascono lontano dal rumore. Tra queste mura si sono intrecciate la cultura enologica casertana, le radici della ricerca, il desiderio di proteggere e valorizzare un sapere antico e un vino che affonda nella storia ma sa essere all’avanguardia, strumento di unione, di consapevolezza e di futuro condiviso.

di Tonia Credendino
Siamo all’Eremo di San Vitaliano, nel cuore del bosco, a pochi passi dalla città di Caserta eppure così lontani dal suo rumore. Un luogo nascosto, fresco anche a luglio, silenzioso come un pensiero che torna. Un incontro tecnico, riservato agli addetti ai lavori — produttori, enologi, ricercatori, sommelier, giornalisti — voluto da Massimo Alois e costruito come un momento collettivo di ascolto, confronto e riflessione sul presente e sul futuro di un territorio.
Non solo dovere, ma anche piacere e senso di appartenenza: così è stato accolto questo incontro. Perché ritrovarsi qui, all’eremo, non è solo aggiornamento tecnico. È riconoscersi parte di una stessa storia, di uno stesso orizzonte. Pietre, silenzio, aria leggera, un luogo che invita a rallentare e a guardare più a fondo. Ed è proprio tra queste mura, che si è riunita una comunità che nel vino non vede solo prodotto, ma identità, cultura, conoscenza e memoria.
A moderare l’incontro delle ore 18 è stato Luciano Pignataro, giornalista enogastronomico, firma autorevole del settore e profondo conoscitore del territorio campano. Con il suo stile pacato ma incisivo ha guidato i lavori con chiarezza, offrendo spunti di riflessione e stimolando un confronto autentico tra i relatori e il pubblico presente.
A dare il via al convegno, i saluti istituzionali di tre figure simboliche del tessuto enologico e culturale casertano: l’Ing. Cesare Avenia, presidente di Vitica, che ha sottolineato l’importanza di continuare a credere nella vocazione agricola di questo territorio; il Dott. Andrea Granito, in rappresentanza della Strada del Vino di Pontelatone, che ha evidenziato il valore di questi momenti di approfondimento per promuovere una visione integrata e sostenibile; e Pietro Iadicicco, delegato AIS Caserta, che con grande sensibilità ha richiamato l’attenzione sull’urgenza di unire le forze tra produttori, sommelier e appassionati, sottolineando quanto l’integrazione tra le realtà dell’Alto Casertano sia oggi fondamentale per affrontare il mercato con coerenza, qualità e orgoglio territoriale.
C’erano parole importanti sedute accanto a noi. Parole come origine, consapevolezza, visione. A guidare l’apertura, il Dott. Claudio Calastri, archeologo del Parco Archeologico del Colosseo, che ci ha condotti indietro nei secoli. Ha parlato di anfore e di impianti agricoli, ma soprattutto di quanto il vino abbia avuto, fin dall’antichità, un ruolo strategico, culturale e rituale. Nelle sue parole il vino non era oggetto, ma segno: una presenza viva che attraversa la storia.
Da qui il viaggio è proseguito con il Prof. Nicola Busino, archeologo e docente, che ci ha accompagnati nel Medioevo, quando la vite si nascondeva tra pergolati e monasteri. Un tempo in cui la coltivazione non si fermava, ma cambiava volto, sopravviveva in silenzio, diventava gesto resistente. Ogni epoca, ci ha ricordato, lascia il suo respiro sulla terra.
Poi è stata la volta del Dott. Tommaso Tartaglione, che ha raccontato l’evoluzione della viticoltura borbonica e la struttura agricola della Campania in età moderna. Il suo intervento ha aperto una riflessione sulla memoria dei luoghi e sul potenziale che spesso dimentichiamo. Ogni vigna, ogni toponimo, ogni palmo di suolo contiene qualcosa che vale la pena salvare.
E proprio dal suolo ha preso voce la Dott.ssa Carla Scotti, pedologa e coordinatrice del progetto di zonazione. Il suo è stato un viaggio tra texture, esposizioni, caratteristiche geologiche. Ma dietro ogni dato c’era rispetto, attenzione, volontà di comprensione. Perché conoscere il suolo non è solo tecnica: è il primo atto d’amore verso un vigneto. A seguire, la Prof.ssa Paola Piombino ha raccontato il profilo aromatico dei vitigni autoctoni — Casavecchia, Pallagrello Bianco, Pallagrello Nero — e le sfumature che essi assumono in base alle zone di origine. Le sue parole hanno trasformato la scienza in poesia, restituendo la complessità come bellezza. Il vino, ci ha detto, non è mai uguale a se stesso: cambia con la luce, il terreno, il tempo. E proprio per questo va raccontato con precisione, ma anche con stupore.
La Dott.ssa Francesca Alliata Bronner ha chiuso la prima parte del convegno ricordando che il vino non è solo gusto, ma esperienza. Ha parlato di turismo lento, di cammini, di territori da attraversare con rispetto e curiosità. Ha evocato immagini di bottiglie che parlano ai viaggiatori, di cantine che diventano luoghi da abitare. In fondo, anche questo eremo è stato un viaggio.
Poi è arrivata la tavola rotonda, moderata con grazia e profondità dalla giornalista Lidia Luberto, che ha saputo cucire i fili di un dialogo tra territori lontani ma sorprendentemente vicini. Un dialogo necessario, chiamato a chiarire che zonare non significa dividere, ma riconoscere. Dall’Etna e dal Barolo sono giunte voci che da anni camminano la strada della zonazione, che conoscono le sue fatiche ma anche i suoi frutti.
Salvo Foti, uomo del vulcano e dell’anima, ha portato con sé il respiro antico de I Vigneri di Milo: il suo racconto ha scavato nel silenzio della sala come la zappa nella pietra lavica, mostrando quanto la zonazione, quando nasce dall’ascolto, diventi atto d’amore per la terra. Poi sono arrivati i racconti delle Langhe, con Paolo Manzone, dell’azienda di Serralunga d’Alba, e Giorgio Conterno, da Monforte d’Alba, figli di un territorio che da decenni affina la propria identità attraverso la mappa minuta delle sue vigne. Le loro parole hanno restituito l’importanza di fare sistema, di camminare insieme, di distinguere senza separare. Vincenzo Lo Mauro, da Randazzo, in rappresentanza di Passopisciaro, ha chiuso con un invito semplice e potente: non esiste zonazione senza cultura. Senza rispetto. Senza il coraggio di dare un nome alle cose per proteggerle.
E a chiudere l’incontro, come un sigillo che non si dimentica, sono state le parole accorate di Lidia Luberto, che con voce ferma e limpida ha ricordato a tutti noi che il vino è cultura, è storia, è emozione. E che confondere il vino con una semplice bevanda alcolica è non solo un errore, ma una perdita di senso. Il vino è consapevolezza, gesto antico che ci lega alla terra e al tempo. E proprio per questo, ha detto, la comunità europea dovrebbe farsi carico di proteggerlo per ciò che è davvero: un patrimonio culturale, e non solo un prodotto. Perché ridurlo a cifra, a etichetta, a percentuale è smarrirne l’anima.
In quelle parole c’era tutto il senso di ciò che avevamo vissuto: la necessità di custodire, di comprendere, di tramandare. Di non lasciarci sfuggire ciò che ci definisce.
Quando le parole hanno lasciato spazio ai sensi, il bosco si è acceso di luci morbide, e sotto le chiome degli alberi ha preso forma la degustazione. I sommelier dell’AIS Caserta hanno guidato i presenti attraverso un percorso vivo, fatto di storie in bottiglia, di sapori radicati. In assaggio i vini dei produttori dell’Alta Campania, insieme a quelli portati dagli ospiti della tavola rotonda: un dialogo di territori, raccontato attraverso tre vitigni identitari — Casavecchia, Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero — capaci di parlare lingue diverse ma unite da un’unica volontà: esistere, resistere, fiorire.
Con la partecipazione dello chef Antonio Papale, che ha preparato una pasta e patate densa, calda, avvolgente, come nelle cucine di una volta. Un piatto semplice, eppure capace di legare i presenti in un abbraccio; a completare l’esperienza, una selezione di prodotti tipici curata da Michele Gambero del Caseificio Antica Casella, che ha portato in tavola formaggi e latticini freschissimi, dal profumo nitido, essenziale. Accanto a lui, Peppe Iacoelli, mastro casaro di Sancti Petri, ha condiviso con orgoglio la tradizione artigianale, fatta di mani, latte e tempo. E poi Giovanni De Marco, dell’Oleificio Ragazzino De Marco, che ha fatto assaggiare un olio denso, verde profondo, capace di raccontare da solo la cura di una famiglia e la forza della sua terra.
Tutto parlava lo stesso linguaggio. Ogni sapore, ogni calice, ogni sorriso. Una serata in cui il vino ha smesso di essere solo bevanda, diventando ponte, legame, racconto.
Poco prima che si spegnessero le ultime luci tra i rami, ho ritrovato Massimo Alois. Era seduto un attimo in disparte, come chi osserva un sogno che ha preso forma. Mi ha parlato del senso di tutto questo. “Lo dobbiamo rispettare, questo territorio,” mi ha detto. “Non quello che sta lontano, ma quello a 500 metri da noi. Dobbiamo fare 500 metri di consapevolezza, come un chilometro zero del rispetto. Cominciare da qui.”
Massimo è un uomo di fede. Non solo in senso religioso, ma in senso assoluto. Crede nel valore delle cose, nel potere del vino come strumento di unione, crede che la bellezza non vada mostrata, ma riconosciuta e condivisa. Mi ha parlato di zonazione non come obbligo, ma come atto necessario. Un gesto per valorizzare non solo il proprio lavoro, ma quello del vicino. “Se il terreno accanto al mio ha le stesse caratteristiche, devo sperare che produca un vino buono quanto il mio. E che lo venda allo stesso prezzo. Questo ci rende più forti.” E poi ha aggiunto: “Abbiamo bisogno di più scienza, più studio. Non basta l’amore. Bisogna creare categorie, delimitare le zone, riconoscere le differenze. Non per competere, ma per resistere insieme”.
E non era scontato, in un giovedì di luglio, ritrovarsi così. Trenta produttori, ristoratori, sommelier, appassionati. Tutti lì, nell’eremo che accoglie e ascolta. Non per mostrarsi, ma per riconoscersi. Perché quando ci si ritrova tra amici che parlano la stessa lingua, anche le differenze diventano ricchezza.
Zonare significa dare dignità alla diversità. Significa proteggerla, valorizzarla, trasformarla in valore condiviso. E questa, forse, è la vera missione che abbiamo portato a casa: smettere di dire io e cominciare a dire noi.
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