Geranium a Copenhagen, il genio di Rasmus Koefoed allo stadio

Pubblicato in: Città e paesi da mangiare e bere

Per Henrik Lings Allé 4, 8.
2100 Copenhagen
Tel.+45 69 96 00 20
Aperto la sera dal mercoledì al sabato e a pranzo dal martedì al sabato. Chiuso domenica e lunedì

Gli stadi sono come foruncoli antropologici e architettonici sulla pelle delle città che servono a scaricare in qualche modo la violenza accumulata nel quotidiano. Nulla di ciò che accade dentro e fuori è veramente razionale, ma succede. Dunque la mia prima meraviglia è stata trovare un grande ristorante bistellato nella palazzina dello stadio di Copenhagen, al quarto piano con vista sul parco universitario coperto dal solito cielo grigio del Nord.
In poco meno di dieci anni i danesi sono riusciti a far diventare questa capitale perfetta, dove pedoni, ciclisti e automobilisti pari sono, una meta gastronomica.

Ci sono riusciti perché sono un popolo di lunga esperienza commerciale, abituato ai contatti con il mondo, solo nel peggiore dei casi bilingue, cortese, espansivo ma educato, sempre un un sorriso cordiale stampato sul viso. Segno distintivo di chi è esercitato dalla disciplina del commercio e dal rapporto con il prossimo.

 

Il Geranium è un fenomeno, se possibile, ancora più estremo del Noma. Lo chef patron Rasmus Koefoed è una sorta di patrimonio collettivo di cui tutti vanno orgogliosi per aver vinto in successione il Bocuse di bronzo, d’argento e d’oro e conquistato due stelle Michelin in tre anni. Tutto è rigorosamente biologico. Così mentre da noi infuria ancora dopo vent’anni la polemica sul fatto che i ristoranti famosi sono cari e può capitare che uno chef importante riceva la visita di Nas, Equitalia, Esattoria, Vigili Urbani, Vigili del Fuoco, ispettori del Lavoro, Ispettori delle Entrate, Ispettori dell’Asl, la Troupe di Striscia la Notizia e Vincenzo Pagano nell’arco di qualche settimana e più volte l’anno, qui nel frattempo sono diventati un fenomeno internazionale sulla scia della rivoluzione di Adrià.

La prima domanda è: per capire questa cucina bisogna conoscere la cucina tradizionale danese? Mi risponde il giornalista Ole Udsen: Il rapporto non è molto stretto. Si basa sulle materie prime, giocando un po’con alcuni piatti tradizionali danesi, fortemente reinterpretati, ma sopratutto esiste a causa di tecniche e sapienze nuove di cottura ed una grande sensibilità da parte dei cuochi. Dunque rapporto con il territorio, ma non con la gastronomia tradizionale. Giusto? Giusto. Noi non abbiamo una grande gastronomia tradizionale come i campani, per esempio. La cucina borghese è molto francese, la cucina rurale più o meno inesistente, molto povera di fantasia.

Dunque il concetto è che quando in  Italia si osserva il pomodoro il pensiero va direttamente a quello che è già stato elaborato mentre la cucina nordica riesce a guardarlo direttamente sul piano materico e da lì resetta la proposta. Un po’ come è avvenuto, a parti inverse, con il mondo della birra artigianale che proprio in Italia è esploso liberamente proprio grazie alla mancanza di una tradizione di riferimento.

Bisogna poi aggiungere anche qualcos’altro sul concetto di ristorante. Questa è sostanzialmente una esperienza, è la differenza tra il bere una bottiglia di buon vino a tavola e provare la stessa etichetta in una seduta di degustazione. La successione dei cibi ha una musicalità interna ai prodotti e alle tecniche, non c’è un piatto principale a cui ci si prepara e da cui poi ci si stacca. Questo per un latino è molto difficile da comprendere, in Italia poche persone accetterebbero di spendere 200 euro solo per il food senza poter scegliere nel menu.
Qui invece la successione ha una cronologia precisa, puoi scegliere tra il menu di due e quello di tre ore perché, da vero popolo commerciale, è il tempo la principale misura delle cose.

Il servizio è sicuramente più algido rispetto al Noma. Si parte, con una batteria di apetizer che non smettono di stupire per la forma, la presentazione, le idee, la combinazione, che hanno sempre, a differenza del Noma che talvolta restituisce morbidezza, l’acidità come parametro di riferimento.

La materia prima si esprime grazie alla quasi totale assenza di grassi. Sarà questo uno dei fattori per cui alla fine vi alzate sazi ma assolutamente bene da tavola. La questione della compatibilità ambientale di quello che si porta a tavola in questa visione gastronomica non prescinde dalla salute di chi mangia. E su questo la distanza sul comune sentire italiano è siderale.

La patata è una delle poche concessioni alla sensazione efficace ma tutto sommato sempre uguale e monocorde del fumé.

In questo piatto il tartufo non copre, ma è un esaltatore di sapore. Onnipresente l’acidità.

 

Questo è forse l’unico piatto senza acidità e che scava nel palato ancestrale del Grande Nord. Il pesce qui è spezzato dalle alghe. Vissuta come chips è divertente, notevole l’intensità del sapore.

Abbiamo scelto l’abbinamento ai succhi invece che ai vini.

Ecco uno dei rari piatti di carne: leggerezza totale e freschezza dominano il palato rassicurato dalla citazione di grasso.

Questi sono invece stati gli sfizi che più mi hanno divertito: ne avessi avuta una cesta non l’avrei lasciata piena:-)

Un’altra differenza è l’uso del pane, in Danimarca buonissimo e quasi sempre nero. Viene portato solo dopo gli apetizer e in piccole porzioni. Qui è accompagnato dal burro di latte di pecora.

 

Ecco un’altra combinazione incredibilmente efficace e rinfrescante.

Questo è stato forse il piatto più impegnativo, molto ben eseguito con questa salsa di panna acida e alghe che spinge la sensazione iodata fino allo stremo.

Acidità, acidità, acidità persine nella portata di carne dove la dolcezza del cervo è esaltata dalla dolcezza fresca dei frutti di bosco.

Dolci non zuccherini, ovviamente.
Lo staff è internazionale. Quando abbiamo mangiato qui c’erano tre italiani nella brigata di cucina.

Qual è il bilancio finale? Sicuramente l’esperienza vale il viaggio e il prezzo, compresa la cazziata finale di mia madre che dall’alto della sua generazione prebellica trova assurdo andare in Danimarca per mangiare con “tutta la roba buona che abbiamo qui”:-))

Farei una sintesi in questo modo.
Da noi la ricerca sulla materia nella sua purezza a prescindere dal vissuto gastronomico sociale vede pochi cuochi impegnati: Bottura, Lopriore, Crippa, Scabin, Romito, Parini, Cannavacciuolo, Cuttaia e Uliassi. C’è la necessità di proseguire in questa direzione in un mondo dove esprimere il proprio vissuto quotidiano significa anche saperlo tradurlo in un linguaggio universale.

Sempre più la cucina di carne appare ad un certo livello alla stregua di chi paga in contanti negli States. Il futuro è nell’orto oltre che nel mare ed è una vendetta della storia vedere questa tendenza esprimersi proprio in culture che hanno fatto degli animali il loro credo gastronomico per molti secoli.

Vedo tantissimi giovani italiani bravi nella tecnica, sicuramente superiori alla generazione precedente, ma poco inclini a ragionare sulla direzione complessiva su cui si vuole andare. I virtuosismi vanno bene, le esecuzioni e le citazioni anche, ma forse oggi vale la pena sperimentarli più su una cicoria che sul foie gras.

 


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