Falanghina del Ramo d’Oro

Pubblicato in: I vini del Mattino

Cara Sibilla Cumana, che novità in cantina? Hai un bel vino nuovo da consigliarmi sulla spigola al sale o su un calamaro arrostito per festeggiare i tuoi trecento anni? Nessun vaticinio chiaro dopo il lungo girovagare nelle viti piantate tra Lucrino e Averno di fronte al mare, dentro i crateri, di fronte alle isole ma una indicazione vaga, mistificante come al solito: se hai letto sir James Frazer hai la risposta. Il Ramo d’oro, quello raccolto da Enea su indicazione della Sibilla prima di fare il suo viaggio nel regno dei morti. Il titolo rubato dal grande antropologo al famoso quadro di Turner è la risposta, dopo il Castello Aragonese di Baia c’è l’antica cava del papà di Teresa Vitale, dismessa nel Dopoguerra e trasformata in uno splendido giardino arabo con i limoni e mandarini, i due agrumi tipici dei Campi Flegrei. Qui, dentro la grotta scavata nel tufo oggi teatro di eventi, prima riparo dalle bombe, pulsa il cuore della nuova azienda impegnata nella Falanghina Aragonese e nel Piedirosso Ponente. E per capire i nomi bisogna spostarsi nella traversa di via Silvatico dove, sorvegliata dal convento in tufo, c’è una delle più belle vigne del Mezzogiorno, curata dal professore Giampiero Scaglione dell’Università di Portici. Di fronte a Monte di Procida si impara a volare sul terreno nero tra i filari di piedirosso e aglianico carezzati dal Ponente mentre, sul lato opposto del crinale, affacciata sul Castello Aragonese, l’uva gode l’escursione termica per sviluppare eleganza, freschezza e mineralità nel bicchiere. La Falanghina Aragonese è un vino tipico, una spremuta di limone, di nerbo, capace di affrontare la cucina flegrea con baldanzosa certezza, l’ennesima dimostrazione della ricchezza del vitigno campano che noi mettiamo risolutamente al primo posto per la sua grande poliedricità, l’unico che non ci fa arricciare il naso se passato in legno. Un paio di ettari, meno di diecimila bottiglie pensate da Roberto Cipresso e lavorate nella cantina di Luigi di Meo, La Sibilla, a Bacoli. La 2004 è un’annata buona per i bianchi campani, a patto che si cominci a berli adesso. La Falanghina di Teresa, tanto per restare in tema, conserva infatti ancora una considerevole freschezza, ben riequilibrata dall’elevamento in bottiglia. La berrete osservando lo scorrere floreale delle ore dell’orologio di Linneo riprodotto nella cava in collaborazione con l’Orto Botanico. Mentre la terra ribolle sotto i vostri piedi sbuffando zolfo in 500 boche, tra cui l’antro in cui si è rifugiata la Sibilla. In fondo, ci sarà pure un motivo per cui sta qui e non in Australia o in California!


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version