
di Stefano Tesi
La mia nonna paterna si chiamava Dina. Mentre la ribollita è, per i toscani, il massimo piatto della memoria.
Che c’entra? C’entra!
Giorni fa ero un giocoso giurato, nell’ambito della Biennale Gastronomica Fiorentina, al Palio della Ribollita allestito al Mercato
di San Lorenzo: una ventina di agguerrite massaie (e massai), tutte rigorosamente dilettanti, in lizza per l’ambìto titolo.
Una grande varietà di interpretazioni del classico piatto povero.
“Giusto”, pensavo tra me e me. Nulla come la ribollita rammenta del resto, riflettevo, il mangiare di casa nelle sue mille sfumature, tutte legittime, e nelle sue mille varianti, sempre dipendenti dalla quantità degli ingredienti e dall’estro della cuoca, maestra per definizione nel fare di necessità virtù.
Ecco perchè dello stesso piatto si trovano così tante versioni, a volte poco ortodosse e perfino spurie o addirittura eretiche, ma quasi sempre ricadenti in un quella meravigliosa eterogeneità domestica capace di sfuggire a ogni gabbia.
Ed ecco anche il motivo della mia radicale contrarietà ad ogni tentativo di codificare la cucina, anzi ogni produzione tradizionale,
che della propria elasticità si alimenta e grazie alla quale sopravvive, con buona pace dei surgelati.
Lo pensavo, lo pensavo, sinceramente.
Poi è comparsa al nostro cospetto lei: Dina. Di cognome: Betti. Anni: 88. Altezza: 1 metro e 50 coi tacchi. Minuta, appena imbarazzata, più che altro smarrita in quell’orgia di selfie, di dirette radiofoniche e
di fugace notorietà mediatica. Senza fronzoli nè orpelli ci ha messo davanti al naso la sua ribollita: sminuzzata e densa, minestrosa ma non molle, con cavolo in evidenza ed eppure amalgamato alla perfezione col pane grazie alla ricottura dettata da una mano non sapiente forse, ma semplicemente esperta.
Per me era la migliore, per altri no. Non ha vinto infatti. Ma il mio vicino di tavolo e di giuria non ha saputo trattenersi e si è
commosso quando Dina è salita sul palco per ritirare, quasi incredula, la”menzione speciale” che le abbiamo voluto attribuire. ” Mi ha ricordato quella di mia nonna”, ha detto lui asciugandosi una lacrima.
A me quel piatto non ha ricordato la ribollita di mia nonna, che era una pessima cuoca, ma mia nonna e basta. Ha dato un senso alla coesione del vissuto di cui il cibo quotidiano è uno, se il non principale mastice.
E all’eroismo di certe massaie avvezze a quelle cose semplici che troppo spesso perdiamo di vista.
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