Il “cunzuolo”: un’antica usanza che restituisce umanità

Pubblicato in: La stanza di Carmen

di Carmen Autuori

La fame e la morte sono state le più grandi paure che, da sempre, hanno afflitto l’umanità. Proprio in quest’ottica – e non certo in quella della celebrazione delle zucche – s’inseriscono tutti i riti che da nord a sud del Belpaese tentano di esorcizzare il timore del trapasso, dai piatti ai dolci dedicati, alle usanze che appartengono alle varie comunità come quella di lasciare la tavola apparecchiata nella notte tra l’1 e il 2 novembre, oppure delle fiaccolate notturne in onore dei defunti, per citarne alcune. In pratica sembra che le anime del Purgatorio abbiano un periodo di tregua dalla penitenza che inizia alla vigilia del due novembre e termini con l’Epifania.

I gesti e i cibi rituali legati alla morte non appartengono, però, solo a questo periodo dell’anno, ma ogni qualvolta si è posti di fronte al triste evento, a sottolineare quanto la morte sia un fatto che coinvolge – o meglio coinvolgeva – l’intera comunità, con il cibo che diventa protagonista.

Parliamo dell’usanza del “cunzuolo” o cunsuolo, termine dialettale il cui significato etimologico è confortare/sostenere, particolarmente diffusa nelle regioni meridionali, che consiste nel portare conforto, appunto, a chi è stato colpito da un lutto, non solo con le parole ma anche con generi alimentari. Questo per far fronte alle necessità di chi è ancora in vita e che, sopraffatto dal dolore, non è incline a pensare a sé stesso.

Nella cultura meridionale il cunzuolo appartiene sicuramente alla tradizione, ma ha anche un significato più ampio che va al di là del gesto materiale: è un atto che restituisce umanità a chi lo pratica e a chi lo riceve, tanto più prezioso in un tempo in cui il concetto di privacy pare abbia sopraffatto tutti i sentimenti, anche quelli di buon vicinato.

L’usanza è andata via via scemando, ma resiste ancora oggi nei piccoli centri urbani, laddove i pochi abitanti rimasti conservano legami che sono assimilabili a quelli familiari.

Un tempo, neanche troppo lontano, esistevano tre tipi di cunzuolo: il primario, il fondamentale e quello secondario.

Il primo cunzuolo era quello che aveva luogo non appena si diffondeva la notizia del decesso. Qualunque fosse stata l’ora, ci si attivava immediatamente con caffè, latte caldo, brioche e, ancora prima, cioccolata calda accompagnata da biscotti Savoiardi. L’usanza resiste ancora, anche se oggi sono i bar a portare a casa del defunto tutto l’occorrente per un primo conforto, corredato da un biglietto di condoglianze del mittente.

Il cunzuolo fondamentale – il pranzo o la cena che si teneva dopo il funerale – era prerogativa dei parenti stretti. Soltanto se impossibilitati per motivi più che oggettivi se ne faceva carico qualche estraneo alla famiglia del defunto legato, però, da rapporti di grande familiarità.

Il pasto consisteva in un primo piatto abbastanza sostanzioso, in genere brodo di pollo con le polpettine oppure una pasta al forno leggera seguita da un secondo, mai a base di carne. In genere la scelta ricadeva sul tradizionale pollo e patate. Fino agli anni ’70 anche le stoviglie erano a carico di chi recava il cunzuolo. Non era raro vedere grandi cesti ricolmi di piatti, posate e bicchieri, ricoperti da candide tovaglie che attraversavano il paese. Nel Vallo di Diano, dove il rito si chiamava “cunzulazio”, si usava prevedere, nel corredo delle novelle spose, dei thermos per il caffè, il the o il caffellatte – in sostanza per le bevande calde – che venivano usati esclusivamente in tali circostanze.

Il cunzuolo secondario, invece, era quello che seguiva i giorni del funerale e consisteva in pacchi di zucchero, caffè, biscotti, frutta sciroppata, scamorze o altri formaggi stagionati, mai salumi perché, al pari della carne, erano ritenuti vettori di spiriti maligni. Attenzione, però: questa tipologia di cunzuolo era riservata soltanto ai conoscenti, mentre le prime due ai familiari, ai parenti stretti e ai vicini di casa.

Questa forma di conforto è ancora molto diffusa, anche se oggi si preferisce lo zucchero e il caffè. Il gesto assume un duplice significato: evitare di recarsi in visita – in genere nei tre giorni successivi alla scomparsa – a mani vuote e portare in dono alimenti non deperibili e che fa sempre comodo tenere in casa, anche se spesso le grandi quantità di zucchero e caffè vengono devolute in opere di carità a favore delle famiglie più bisognose per “rinfrescare l’anima dei morti” perché, vale la pena ricordarlo, nella nostra cultura il confine tra vita è morte non è mai netto.


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