
Da sempre ogni generazione ha avuto i suoi segni distintivi rispetto alla precedente. Dopo il 1968 c’è stata però la prima grande svolta divisiva anche sul mercato della musica, dell’abbigliamento, dei comportamenti sessuali e in parte anche della letteratura. Mercati diversi e appetibili come poi è stato subito compreso dall’industria.
La novità degli ultimi anni è che le ultime generazioni, quelle sotto i 20-25 anni per intenderci, hanno anche i loro strumenti che le precedenti non sanno usare o, se lo fanno, procedono con difficoltà. Si spiega così il fatto che quando Geolier cantò per la prima volta a Sanremo nessuno, o quasi, dei presenti in sala stampa lo conosceva (ricordate i video virali «ma chi è questo?») nonostante fosse conosciuto da milioni di giovani e giovanissimi. Ed così che quando le generazioni Baby Boomer e Zeta hanno iniziato a smanettare su Facebook questo era già considerato un «social per vecchi» dai loro nipoti fuggiti in massa su Instragram e Tik Tok. Per la prima volta nella storia dell’uomo sono i giovani ad insegnare come si fa qualcosa ai più grandi.
La comunicazione della pizza: dagli chef star ai fornostar
Con la pizza è successa esattamente la stessa cosa. Un dato dell’Osservatorio reso noto da Raffaele Biglietto a TuttoPizza 2025, è che il 65 per cento delle pizzerie usa solo i social per comunicare. Quasi nessuna ha un proprio sito.
Ed è meraviglioso vedere come uno dei cibi più antichi e ancestrali, nato povero del ventre povero di Napoli, sonoramente ignorato dall’aristocrazia e dai suoi ricettari (Corrado–Cavalcanti-Carola Francesconi), sia diventato terribilmente contemporaneo e che i suoi professionisti siano diventate delle rockstar, anzi, delle fornostar come simpaticamente li definisce l’antropologo Marino Niola che di fenomeni sociali se ne intende.
Scrivendo queste righe già so perfettamente che difficilmente qualcuno sotto i 30 anni mi leggerà, pochissimi sotto i 40. Ed è questa cesura comunicativa dello strumento che ha messo in crisi improvvisamente il mondo del vino e che spiega invece il successo di Napoli in generale e della pizza in particolare. Nessun altro cibo italiano o mondiale è più cercato, citato, cliccato di questo perché la sua sprovincializzazione si deve proprio alla carica vitalistica dei suoi protagonisti che non solo si sono resi conto di poter essere i migliori comunicatori di se stessi, ma che ben lavorando possono riempire i locali e diventare vere star, anzi fornostar per citare di nuovo il professore Niola, fermate per strada non per l’autografo (roba da vecchi) ma per il selfie.
Addio scrittura. Il selfie al posto dell’autografo
E come Geolier ha spiazzato i giornalisti specializzati, così la pizza ha spiazzato la critica gastronomica italiana che aveva relegato le pizzerie e i pizzaioli a fenomeno etnico napoletano, roba folkloristica, niente di più. Poi quando gli stessi critici che inseguivano stelle, stelline e stellati hanno iniziato a percepire lo tsunami visto che si accendevano sotto casa forni a ripetizione da Roma come a Milano e Torino, a Bologna come a Firenze, per non parlare del resto del mondo, hanno commesso il secondo errore: narrare il fenomeno allo stesso modo con cui avevano raccontato (sempre più noiosamente in verità) il mondo degli chef, quasi fossero i nuovi maitre a penser. La cosa buffa è che qualche pizzaiolo, pochi, pochissimi, al massimo due o tre per la verità, ha creduto a queste false Sirene fino a definirsi pizza chef pur non avendo mai lavorato in una cucina o studiato in un Istituto Alberghiero.
Naturalmente il successo della pizza ha radici profonde: storia, partire come identitario di una comunità molto numerosa, figure come Enzo Coccia che hanno capito che bisognava agganciarsi all’università e agli intellettuali e a Slow Food, ci mettiamo noi come Mattino che essendo il giornale di Napoli ne abbiamo sempre parlato, poi il disciplinare Stg, la battaglia di Sergio Miccu e Pecoraro Scanio per il riconoscimento Unesco, la rivoluzione delle farine grazie alla intuizione di Caputo. Tutte cose importanti, di sostanza come si diceva un tempo.
Ma ad ammaliare i giovanissimi, a farmi ricevere le telefonate di amiche che chiedono consigli perché i loro figli vogliono venire a Napoli per conoscere Porzio, Sorbillo, Capuano, Lioniello, Ciro Cascella e ora la giovane coppia di Maturazioni a Ottaviano e tanti altri sono stati soprattutto i social network come per primo ha intuito bene Gino Sorbillo.
Può piacere o non piacere, ma il dato di fatto è che questi strumenti sono la sublimazione della comunicazione visiva con delle regole precise che i nuovi protagonisti conoscono bene e che, questo è il dato, cambiano in continuazione. In sostanza, per quanto possa sembrare paradossale, la pizza napoletana ha avuto successo perché è moderna non perché è antica: è l’unico cibo che è riuscito a inventare da se stesso attraverso i suoi protagonisti la narrazione commerciale per attrarre clienti. I giovani non hanno bisogno di fare corsi per capire le regole dell’algoritmo, sono essi stessi l’algoritmo.
Non c’è forma senza sostanza, è vero.
Ma è indubitabile che oggi si guardi alla prima dimenticandosi spesso della seconda. Del resto adesso persino le relazioni diplomatiche si fanno sui social, perché non dovrebbe essere così per la nostra amata pizza?
Resta una domanda, questa:
Tik Tok è più attendibile della Treccani?
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