Improvvisatori e affaristi, l’allarme di Enzo Vizzari: la buona cucina italiana è assediata. Anche la buona critica aggiungiamo noi:-)

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

Per gentile concessione della direzione del Tirreno, rilanciamo l’intervista a Enzo Vizzari, responsabile Guide Espresso, pubblicata oggi sul quotidiano toscano diretto da Roberto Bernabò

Troppi piatti cattivi. I cibi inverosimili proliferano nei menu dei ristoranti improvvisati che spuntano come funghi. Dalla pizza bruciata e indigesta alle accoppiate mare e terra, da certi illogici esperimenti ad antipasti che debordano in quantità, dalla panna imperante alle fritture che digerisci dopo 36 ore. Con un risultato: la tradizione gastronomica italiana ne esce ferita, azzannata, morsa con cattiveria. E comunque offuscata.


 «In effetti si trovano e si mangiano cose improponibili – dice Enzo Vizzari, curatore della guida gastronomica dell’Espresso – Ai fornelli tutti improvvisano, tutti si sentono fenomeni. Meriterebbero un’indagine più sociologica che gastronomica, questi dilettanti allo sbaraglio. Sa qual è il guaio?».
 Dica pure.
 «Il guaio è che la gente, quando non sa cosa fare, si mette a cucinare. Poi, è vero, alla lunga il mercato fa giustizia. Ma parecchi continuano a prosperare».
 Segno di crisi se tanti si trovano senza lavoro e cominciano a sfornellare?
 «Esatto. Pensi ai griglia-restaurant, nati agli inizi della crisi, quando un sacco di cuochi si trovò fuori dai ristoranti. Oppure ai cucinieri che vanno nelle case e che improvvisano, servendosi dei blog».
 Chi va a preparare cibi a domicilio, però, un po’ d’esperienza dovrà pure averla. O no?
 «Quelli che ce l’hanno, ce l’hanno. La sventura sono gli altri, i personaggi senza background e privi di esperienza, che di punto in bianco si mettono a fare questo lavoro».
 Se le cose stanno così, anche il turismo è minacciato. Pensi all’immagine gastronomica dell’Italia.
 «Non esageriamo, il fenomeno non è destinato ad allargarsi e a durare nel tempo. È solo frutto della crisi. I turisti che arrivano in Italia sono più portati a scegliere la trattoria che, sebbene cattiva, tale resta».
 Il mordi e fuggi, in tal caso traducibile nel mangia e paga, è allora prerogativa degli italiani?
 «I giovani mangiano quel che trovano, un po’ ovunque. La nazionalità non conta. Ma ripeto: fra i tanti pericoli che corre la buona cucina, questo mi sembra contingente e marginale».
 
E allora, qual è il rischio maggiore?
 
«L’improvvisazione. Il dilettantismo nelle trattorie e nei ristoranti, nei luoghi deputati a dare da mangiare. Se il livello di professionalità in cucina si abbassa, difetta l’attenzione sulla qualità dei prodotti. Sono convinto: è anche una questione di etica».
 Si è imbattuto in episodi d’incompetenza?
 «Di continuo. Parliamo di Roma. In una notissima trattoria mi è stata servita una caricatura impresentabile dei maccheroni cacio e pepe. Se persino nelle trattorie romane fanno cattivo il cacio e pepe, vuol dire che non c’è più religione».
 Addirittura…
 «Certo, perché non stiamo parlando di alta cucina, ma di piatti base, identitari, su cui si fonda la nostra tradizione culinaria. Se li fanno male, è segno di decadimento, dell’uso di prodotti di cattiva qualità. È la mancanza di rigore che mette a repentaglio la sostanza e l’immagine della cucina italiana».
 Le cose più irritanti?
 «Quelle che rivelano un mancato rispetto di regole elementari sui piatti di base. Dico: possibile che in Italia si servano gli spaghetti al ragù? Non esiste, dovrebbero essere banditi. Al pari delle carbonare con la panna, del tutto impresentabili. Piatti tollerabili se fatti all’estero, ma insopportabili se cucinati da noi».
 Poi c’è la pizza, altra questione d’identità.
 «Non ne parliamo. Se in Italia è buona solo in un pugno di posti, fuori confine ci mettono sopra di tutto. Ma è un problema irrisolvibile, non funzionano editti, leggi o accordi internazionali. Vale solo il mercato: se ingoia, tutto procede; se sanziona, tutto cessa».
 È pessimista…
 «Realista. Rassegnamoci all’idea che, se all’estero imitano bene, le cose italiane sono le migliori. E non mi riferisco solo alla cucina. Pensi al tessile…
 A proposito di imitazioni: le sagre. Stante la crisi, viene la voglia di riabilitarle. Dopotutto in quattro si mangia con sessanta euro.
 «Sì, e i ristoratori s’incazzano come bestie e cresce l’acredine verso le istituzioni, con le Regioni, i Comuni e le Province chiamati in ballo. Fanno una concorrenza, se non sleale, almeno impropria e gli organizzatori derogano ai requisiti necessari di sicurezza, igiene e qualità. Ma, come dice lei, in quattro mangiano e spendono sessanta euro. Qualcuno ha voglia di condannarli?».

Intervista di A. Valentini

 


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