
di Stefano Tesi
Le bollicine disperse in qualche angolo della cantina sono un classico per chiunque si diletti in cose di vino.
E ogni volta che si ritrova qualche “giacimento”, la reazione è sempre la stessa. Duplice. La prima è: “accidenti, non mi ricordavo per niente di questa bottiglia, come è finita qui? Sennò l’avrei bevuta prima”. La seconda, invece, è più drastica: “sarà ancora buona?”.
Domanda che implica un’ulteriore variabile dettata dalla teorica longevità del vino, nel senso che tanto più si considera lo spumante in parola nato per essere consumato presto e tanto minore è di norma la speranza (e quindi maggiore il pregiudizio) che possa essersi mantenuto bene.
Ovviamente, non resta che provare.
Quando ho rimosso la capsula e la gabbia di questo Col Vetoraz Valdobbiadene Brut Docg 2010 (fatto in autoclave, con 8% di residuo zuccherino) e ho messo mano al tappo, qualche timore in effetti l’ho avuto: diciamo che appariva piuttosto stagionato, con tutte le potenziali conseguenze.
Versato nel bicchiere, il vino si è presentato però di un bell’oro intenso, carico e brillante, con spuma cremosa e perlage lento, finissimo.
Ero curiosissimo di provare le sensazioni olfattive.
Le attese note di mela, frutti bianchi e agrumi hanno lasciato il posto a una lenta sequenza di miele di acacia, toffees e datteri immersa in una diffusa atmosfera di incenso, di cera e – per chi ha presenti certi ambienti – di sacrestia.
In bocca la briosità è fatalmente perduta, ma emerge un’eleganza composta e saggia, lunga, piacevole nei suoi echi di frutta secca e mandorle, appena sapidi, che mi hanno fatto accompagnare il vino a tutta la cena e alla conversazione successiva.
Il che non è poco.
Quasi quasi torno in cantina a vedere se ne avessi dimenticata un’altra bottiglia.
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