La Borgogna che non ti aspetti – parte III: due visite pazzesche da Domaine Taupenot Merme e Domaine Faiveley

Pubblicato in: Champagne e Vini francesi
Borgogna - Cotede Nuits

di Raffaele Mosca

Riprendiamo da dove era finita la prima parte del racconto di questa visita in Borgogna, ovvero da quel pranzo al Bistrot des Falaises di Saint Romain che aveva concluso il nostro tour per i sentieri meno battuti della Cote de Beaune. Un salto al Montrachet in un pomeriggio di cielo terso e sole splendente, un aperitivo sulla Place Carnot con un ottimo Saint Aubin e una cena discreta – ma un po’ troppo cara – al Bistrot de l’Hotel in cui la star assoluta è il Rully di Domaine de Villane (si, l’azienda nella Borgogna “minore” dei comproprietari di Romanee Conti). Poi alla domenica  si fa un giro al salon des vignerons di Digione, tra un terroso e muscoloso Chambertin di Chantal Tortochot e qualche chicca da Chablis e Jura, e al lunedì, ultimo giorno di queste breve tour in Borgogna, si vanno a visitare due aziende della Cote Nuits molto diverse tra di loro: Domaine Taupenot Merme e Domaine Faiveley.

Taupenot Merme: a casa di un vigneron della Cote de Nuits

Una cancellata su di un viale costeggiato da casupole in pietra, un cortile raccolto e una saletta con un camino acceso.  Lo scenario è bucolico, accogliente in questa giornata brumosa, ma nel complesso piuttosto ordinario. Si fatica ad immaginare che due case più in là, c’è una fortezza che nasconde dietro le sue mura un vigneto leggendario. Il proprietario, da qualche anno, a questa parte, è uno degli uomini più ricchi del globo, detentore con la sua holding della casa d’aste Christie’s e di svariati marchi di alta moda. Il signore in questione, che si chiama Francois Pinault, ha sborsato una cifra che si aggira intorno ai 200 milioni di euro per diventare vicino di cantina della famiglia Taupenot.

Siamo nel village di Morey Saint Denis e la vigna sopraccitata è  il Clos de Tart, uno dei quattro “clos” – ovvero “vigne concluse” – di questo village stretto tra Chambolle Musigny e Gevrey Chambertin. Gli altri sono il Clos de la Roche, il Clos Saint Denis (che dà il nome al comune) e il Clos de Lambrays. Proprio come il Clos de Tart, quest’ultimo sarebbe un monopole, vale a dire una vigna posseduta da una singola azienda, se la famiglia di Virginie Taupenot non avesse sempre rifiutato di vendere la sua piccolissima parcella al Domaine des Lambrays, che detiene tutto il resto della superficie. “ Siamo sempre stati molto attaccati  ai nostri possedimenti – ci spiega Virginie – siamo viticoltori da nove generazioni e, anche se alcuni membri della nostra famiglia hanno deciso per un certo periodo di fare altro nella vita, non abbiamo mai nemmeno immaginato di vendere il domaine”.

Originari di Saint Romain, dove tutt’oggi possiedono alcuni appezzamenti, i Taupenot fanno vino dal 17esimo secolo. Virginie e suo fratello Romain rappresentano la nona generazione di viticoltori, ma l’azienda che gestiscono è relativamente giovane. Taupenot Merme, infatti, nasce nel 1963, in seguito al matrimonio tra i loro genitori: Jean Taupenot e Denise Merme, quest’ultima proprietaria delle vigne di Morey Saint Denis e Gevrey Chambertin,  La decisione di passare dal conferimento ai negociant alla vinificazione in proprio viene presa dieci anni dopo, nel 1973,  per pagare le onerosissime tasse di successione imposte dal governo francese.

Attualmente il parco vigneti aziendale consta di tredici ettari – situati per due terzi nella Cote de Beaune e per un terzo di Cote de Nuits – che danno vita a più di venti vini diversi. Virginie e Romain si dividono tra vigneto, cantina e ufficio e si definiscono vignaioli “pigri”, nel senso che si limitano a seguire un protocollo ben consolidato riassumibile in: gestione del vigneto in regime biologico non certificato, diraspatura delle uve al momento dell’arrivo in cantina, macerazione a freddo per estrarre aromi, lunga fermentazione con lieviti indigeni, affinamento in pièce nuove per il 25-30%, nessuna filtrazione prima dell’imbottigliamento. Ben più attivi lo sono sul fronte della gestione commerciale dell’impresa: dal ritiro definitivo dei loro genitori, avvenuto nel 2006, hanno aumentato a dismisura la presenza sui mercati internazionali, arrivando ad esportare il 90% della produzione. Tutto questo senza cambiare lo stile dei vini, che sono puri, suadenti, meno streganti e dirompenti a primo acchito di altri prodotti da queste parti, ma nitidi e costanti.

La degustazione si concentra, per nostra specifica volontà, sui vini della Cote de Nuits, ma parte da un Auxey Duresses Rouge 1er Cru 2018, assemblaggio delle vigne Les Duresses e Granchots. Agnes Paquet ce ne aveva fatto assaggiare uno estroso, scapigliato, sanguigno; questo, invece, è raffinato, lineare, carico di frutto rosso e balsamico sul fondo, con tannino ben fuso nel corpo e finale rinfrescante al sapore di arancia sanguinella. Segue il primo vino da questa cote: Morey Saint Denis 1er Cru La Riotte 2018. Un concentrato di mela rossa e creme de cassis, con tannino sciolto, acida in lizza, impronta ematica tipica del village a dare la terza dimensione e un finale d’estrema souplesse su toni di rose e lamponi. Ci dà lo spunto per chiedere a Virginie come è stata la 2018: “ calda e precoce come la 2017 e la 2019 – ci risponde – ma questa vigna, che ha 60 anni, ha dato ottimi risultati”.

Si prosegue con il Corton Rognet Grand Cru 2018, da vigna acquistata nel 2005. E’ più fine, più floreale – e ovviamente più giovane – del Corton 2009 di Maldant Pauvelot assaggiato il giorno prima, ma ha sempre il tannino forzuto che rende i Corton un po’ più rustici rispetto ai Grand Cru della Cote de Nuits. E in Cote de Nuits torniamo con lo Gevrey Chambertin village 2019: profumato di more di rovo, tè nero e fungo porcino, con un sorso di bell’equilibrio, ben giocato tra frutto, acidità e spunti terrosi che costituiscono il timbro di fabbrica del village. Nel complesso, una bottiglia dal rapporto qualità-prezzo molto buono che precede i due campioni della batteria: Charmes Chambertin e Mazoyeres Chambertin Grand Cru 2019.  Giovanissimi, entrambi timidi sulle prime, danno conferma del loro lignaggio al momento dell’assaggio: il primo soave e garbato, giocato su toni sottili e suadenti di  tè verde, erbe officinali, cipria e wasabi, con un tannino pressapoco impalpabile e un lungo finale segnato da rimandi alla creme de cassis; il secondo più robusto e profondo, ma sempre dotato di grande souplesse. Cresce d’intensità nell’arco di pochi minuti e tira fuori spunti terrosi, ematici e balsamici; ha più grinta tannica e più verve minerale dello Charmes, e forse chiede di un po’ di tempo in più per assestarsi. Per la cronaca, le due vigne sono situate una accanto all’altra, e la toponomastica complessa della seconda spinge spesso ai produttori a imbottigliare il Mazoyeres con il nome Charmes Chambertin. Un errore, a detta di Virginie, “ perché sono gemelli diversi.”

Domaine Faiveley: quando numeri e qualità vanno di pari passo

Breve pausa pranzo con uno Chambolle Musigny oberato dal legno – tanto per sottolineare che anche in Borgogna c’è qualcuno che strizza l’occhio al consumatore inesperto! – e si va in un’azienda di tutt’altro genere, situata ai margini del borgo di Nuits Saint Georges.

Un ingresso alquanto modesto in una via defilata a ridosso della Route des Grands Cru nasconde una vera e propria cattedrale del vino di Borgogna, composta da cuverie vista vigneti che ospita decine di tini di fermentazione e bottaia sotterranea che ha poco da invidiare alle chai degli chateau di Bordeaux. Una struttura decisamente insolita in una zona come la Cote de Nuits, dove anche i nomi più prestigiosi riescono a radunare la loro produzione in una saletta di poche decine di metri quadrati. Qualcosa di simile lo si vede solo da Jadot, Bichot, Latour e Bouchard nell’abitato di Beaune, con la sola differenza che lì, nei quartieri generali dei negociant, tutto ciò che fermenta e affina proviene da uve acquistate da una rete capillare di viticoltori. Qui, invece, il grosso della massa è ricavato da parcelle di proprietà del Domaine.  Ad occhio e croce, i Faiveley sono i più grandi vignerons di Borgogna.

Ad accoglierci è Erwan Faiveley, rappresentante della settimana generazione di viticoltori: occhi azzurri, inglese perfetto, nonchalance classica di chi sa di non aver nulla da dimostrare. Giusto due accenni su storia e metodi di vinificazione del Domaine Faiveley, e si va subito a degustare dalle botti.  “ E’ che tra un po’ devo andare a prendere mia figlia a scuola – ci dice – e non vorrei che ve ne andaste senza aver assaggiato qualche Grand Cru”.

La storia della famiglia Faiveley ha inizio nel 1825 con la fondazione da parte del capostipite Joseph della maison nel cuore di Nuits Saint Georges. Al 1832 risale l’acquisto del primo vigneto all’interno del village, al quale faranno seguito, nei decenni successivi, acquisizioni di altre parcelle che, poi, nel 1936, saranno classificate Premier Cru e Grand Cru. Da quel momento ad oggi, l’espansione delle proprietà aziendali non si è mai fermata: negli anni 30’ è la volta dei Grand Cru di Gevrey Chambertin, tra i 90’ e i primi 2000 quella dei Premier Cru della Cote de Beaune. Per arrivare, nel 2015, all’ incastonatura nella corona del gioiello più prezioso: una minuscola porzione di appena 3 are nel Musigny, forse il vigneto più importante di tutta la Borgogna dopo la Romanee-Conti.

Oggi la gamma aziendale conta oltre 50 etichette da 300 vigneti, di cui 13 classificati Grand Cru. “ L’80% della produzione proviene dai possedimenti del Domaine – ci spiega Erwan – i vini che produciamo da uve acquistate sono quelli dell’ appellation regionale, che in etichetta riportano il brand Joseph Faiveley”. Non si parla di numeri, ma la produzione deve essere nell’ordine di svariate centinaia di migliaia di bottiglie. Il che, dalle nostre parti, comporterebbe una certa standardizzazione dei processi, mentre qui si fa un lavoro certosino, sartoriale: “Ogni vino viene trattato in maniera differente: in base alla caratteristiche della parcella, all’età delle vigne, al clima e all’annata, decidiamo di vinificare a grappolo intero o diraspare, di impiegare più legno nuovo (fino a un massimo del 60%) o di preferire quello usato, di tenere il vino in botte per un periodo che può variare dai 12 ai 18 mesi”.

I vini che accingiamo ad assaggiare dalle piece appartengono tutti al millesimo 2020, che si trova nell’ultimo stadio dell’affinamento prima dell’imbottigliamento. “ E’ un ottimo momento per assaggiarli, perché in questa fase mettono ben in evidenza le loro caratteristiche. Dopo l’imbottigliamento, andranno a chiudersi, per poi riaprirsi tra qualche tempo.”  L’annata 2020 è stata definita “paradossale”: precoce come ‘18 e ‘19, ma i vini, in molti casi, sono venuti meno alcolici e concentrati che nelle stagioni precedenti. Probabilmente la ragione di tutto ciò che sta nell’andamento dei mesi estivi, nei quali non si sono verificate le ondate di caldo africano che hanno caratterizzato molte stagioni nell’ultimo decennio.

Partiamo con il Nuits Saint Georges Les Saint Georges, il premier Cru che dà il nome al paese e che, negli anni a venire, diventerà un Grand Cru (non lo è stato fino a questo momento semplicemente perché Henri Gouges, uno dei padri della classificazione, decise di tener fuori il suo village d’origine per evitare d’essere accusato di conflitto d’interesse). Generalmente i Nuits sono vini possenti, profondi più che ariosi –  a meno che non provengano dalle vigne confinanti con Vosne Romaneè – ma questo è dotato di souplesse invidiabile, nonostante l’apporto del legno si faccia sentire (e sarebbe strano il contrario!). Un’ottima apertura che precede l’ assaggio altrettanto convincente dello Chambolle Musigny 1er Cru Charmes, che risente un po’ meno dell’impatto del rovere, e scorre in bocca con grande soavità, tra lampi di cipria, pepe bianco, anice stellato, e un ritorno floreale che allunga il finale disteso ed aggraziato.

Tutt’altra storia lo Gevrey Chambertin 1er Clos des Issarts Monopole: appena 0,60 ettari da quali si ricava un vino che gioca già su toni terrosi e autunnali – di sous bois, dicono i borgognoni – con tannini leggermente astringenti, rafforzati dal rovere, che corrugano appena una progressione strutturalmente imponente, con finale di media durata. Più delicato e floreale al naso e nel contempo più tridimensionale al palato il Gevrey Chambertin 1er Cru Les Cazetiers, dotato di splendida purezza di frutto ed energia minerale di fondo che lo rende estremamente promettente.

Passiamo ai Grand Cru: primo della sfilza è l’Echezeaux “En Orveaux”, già esplosivo in questa fase, con toni speziati tipici del vigneto – cumino, chiodo di garofano, zenzero piccante – e un sorso appena più semplice, ma comunque garbato, succoso ed allettante nei rimandi piccanti che definiscono la chiusura un po’ sottile.  “ Confesso di non essere pienamente soddisfatto dalla qualità dell’Echezeaux in quest’annata – ci dice – per me non è un vino che brillerà”. Decisamente superiori i due Cru che seguono: un Clos Vougeot scuro e potente – con tannino arrembante, quasi “nebbiolesco” , e allungo notevole su toni di ginseng e melagrana – e un Chambertin Clos de Beze semplicemente magnifico: ematico sulle prime, poi suadente di ribes e rosa rossa, incenso, cannella. La cornice del legno e lì, in bella vista, ma non copre il frutto succosissimo – come una drupa appena raccolta – che sfuma nel finale di straordinaria persistenza. E’ il vino del viaggio!

Un ultimo rosso prima dei bianchi: Corton Clos des Cortons, monopole di famiglia dal 1874. E’ il terzo che assaggiamo e, per ovvi motivi anagrafici, il meno leggibile. Molto più denso, meno fine e profumato del Clos de Beze, evidenzia una bella sostanza attualmente un po’ compressa dalle tostature del legno.

Il rush finale di questo tour borgognone parte con l’unico vino di “negoce” tra quelli assaggiati: Mersault 1er Cru Blagny. Non opulento e burroso come da canone per il village, anzi fresco, dinamico, minerale nel finale di buona distensione. Un conseguimento discreto, ma lontano anni luce da due campioni con cui chiudiamo questa sessione intensiva: Corton Charlemagne e Batard Montrachet. Il primo più espressivo in questa fase, giocato su toni di nocciole e burro salato, con sorso solare, cremoso, carico di rimandi alla frutta estiva molto matura che vanno a braccetto con la parte tostata nella chiusura avvolgente,cremosa. Il secondo decisamente più chiuso, ma comunque stupefacente perché totalmente privo di aromi riconducibili ai legni d’affinamento (il che la dice lunga sulla ricchezza della materia di base!). Il fiore, la mandorla, le erbe officinali, la pietra focaia e lo zafferano dominano la scena, suffragati da una spinta acido-sapida che rinforza il sorso apparentemente sottile. E’ la finezza che sorprende: come un senso di potenza senza peso, di profondità mascherata dall’impeto acido giovanile che emerge più chiara nel finale di grande respiro e somma raffinatezza. Non c’era modo migliore di concludere questo itinerario in crescendo, partito dalla Borgogna “dei piccoli” e arrivato al cuore del mito. “L’amore che move il sole e l’altre stelle” direbbe il divino poeta. Noi, però, poeti non siamo, e allora ci congediamo con un semplice “Merci beaucoup, Erwan!”.

 


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