La descrizione di un attimo

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Era ora di pranzo. Un caffè apre lo stomaco, dice. E il fegato? Chi lo apre? Espresso aperitivo: dovevo immaginarlo che tutto sarebbe andato al contrario, come in un testa coda. Già, la testa. Perfetta e lucida: voglio ricordare, ché l’altra volta mi era passata davanti la bellezza e l’avevo lasciata scendere, come le belle passanti che non riusciamo mai a trattenere. Tutto è cominciato con un caffè, quindi. Ricordo bene, tanto che potrei metter giù una specie di diario, piccoli lampi enoici, in qualche modo eroici. Perché è il vino che mi va di portare con me, in fondo senza saperne il motivo: cosa sarà un bicchiere di vino, cosa sarà che ti fa camminare con un amico, una sera, a parlar del futuro, cosa sarà che dobbiamo cercare. Ecco, in effetti affiorano alla mente morsi confusi di canzoni. Sarebbe anche bello, se non fosse per il rumore molesto della serranda che si alza e si abbassa, si alza e si abbassa.

Ore 14: Dom Pérignon Vintage 2000, Magnum. Fette di mandarancio a essiccare sul camino. Valzer lento, con paillettes.

Ore 14.30: Batard Montrachet Grand Cru 1999, Domaine Jean Noel Gagnard, Magnum. Di miele e di fumo. Languidamente femmineo. Pure troppo.

Ore 15: Montrachet Grand Cru 2000, Chateau de Puligny. Balsamiche finezze calcaree. L’anice che sguazza come ranocchio nello zenzero. Principesco e pimpante.

Ore 15.30: Montrachet Grand Cru 1997, Domaine Bouchard Père & Fils. Sospiri di ananas e fichi. Ma ne ribevi. Festoso.

Ore 16: Romanée St. Vivant 1989, Domaine Romanée Conti. Amaranto, granato d’amarena, schioccante di spezie. Netto e pulito. Il cuore oltre l’ostacolo.

Ore 16.30: Petrus 1995. Ematico di frutto, terragno di funghi. Non disdegna un tango con un’amatriciana Vicidomini tirata al chiodo. Elegante, intatto, intoccabile. Un vero signore.

Ore 17: Gevrey-Chambertin 1er Cru Les Champeaux 1995, Domaine Denis Mortet. Spinge tosto di tostature. Dritto e appagante. Elettrico.

Ore 17.30: Barolo, Sarmassa di Barolo 2001, Roberto Voerzio, Magnum. Ritorno a casa, tra boschi e sottobosco. Tannini vividi e sinceri. Un abbraccio.

Ore 18: Chateau d’Yquem 1993, Lur-Saluces. Meno opulento e glicerico di quanto t’aspetti, eppure di beva fresca e suadente. Una tavola imbandita di tutte le dolcezze mediterranee, secche e candite. Alla fine un sigaro. Natalizio.

Ecco il Sauternes me lo sarei portato volentieri fino a Natale, in effetti. Un modo per fissarlo nella memoria e nel tempo. Ma sarà mai possibile ricordare un vino? Solo un paio di sorsi per non dimenticare: eppur mi son scordato di te, come ho fatto non so… una ragione vera non c’è, lei era bella però. Ecco, lei chi? Un vino non ha occhi, non ha gesti, non parla. Eppure metto in fila i bicchieri, pettinandomi i pensieri, col telecomando della serranda nella mano. Sono migliore di ieri? Fottuto Billy the Kid, e le tacche sulla sua pistola. Classifiche. Io c’ero. Come poter spiegare se non c’è niente da spiegare e forse niente da capire. Solo liquido che scorre, dio solo sa quanto buono. Ma semplice liquido. Che bussa alle tempie e al cuore, che irrora le arterie fino ai gangli della memoria, fino alle sinapsi del piacere, implacabile e seducente, ma evanescente. Sarà che ha trovato chiuso il fegato. Porca miseria, è solo vino: vero però. Ho sempre temuto il dramma socioesistenziale della bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta. Ancora le canzoni.

Ore 20: Krug Rosé. Tirato a secco come mare sul sasso, acido e incipriato di piccoli frutti di bosco, di ribes, fino al limite di una citrina, rosea pompelmosità. Rivitalizzante.

Ore 20.30: Trebbiano d’Abruzzo 2002, Valentini. Corpo, fumigante di taglienza. Da ascoltare per ore. E parlarci, se possibile.

Ore 21: Chevalier Montrachet Grand Cru 2002, Domaine Bouchard Père & Fils. Chissà se conosceva la “Gricia” con le “mezzemaniche” di Verrigni. Di fatto se ne innamora, persistente e morbido di mandorle e fichi ficcanti. Eroico.

Ore 21.30: Chateau Margaux 1er Grand Cru 1984. Una ventata esuberante e autolesionista. Schizzo rubino e denso. Poi si quieta, in un morso di prugna, secca ma polposa. Nevrile.

Ore 22: Chateau Cheval Blanc 1er Grand Cru 1992. Sedicesima bottiglia. Sul taccuino annoto: fermo, fresco, regàle. E naufrago, in un ultimo mare di velluto. A coste. Epico.

Doppio testa coda. Il vino è fatto di tutto e di niente, in sé non ha senso: chissenefraga dei descrittori, quelli li afferri al volo, poi fuggono o li lasci andare, magnanimo. Non ricordi un vino per i descrittori, come una canzone non la vedi come una serie di note sullo spartito. Un vino è un gesto, uno sguardo, un vociare. Forse anche per chi lo fa. Un vino è un brivido mentre guidi, spesso un desiderio mancato, raramente un cenno di intesa, anche con te stesso. Il vino è ciò che ti circonda, la descrizione di un attimo.

Il ritmo della serranda ricorda l’attacco di Hotel California, versione acustica. In fondo sono in un albergo alle prese con una carta magnetica, luci e interruttori. Poi parte l’arpeggio, proprio quello, la gente applaude, e io mi commuovo. Mi addormento coi profumi saturi e silvestri del Cheval Blanc, che passavano di lì per caso, come una canzone alla radio, in macchina. Felice come un bambino o come un vecchio rincoglionito. Con le luci accese e la serranda aperta.


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