Matias Perdomo, il cuoco più figo che ha preso il posto di Cracco tra i gourmet milanesi. Tanto divertimento ma a volte troppo fine a se stesso

Mattias Pedomo

di Giulia Gavagnin

Siccome siamo dei bastiancontrario ci piace procedere a ritroso, siccome siamo dei bastiancontrario anche un po’ dispettosi, di quelli che rivelano anzitempo il finale dei film (nel linguaggio moderno dei filoanglisti si dice odiosamente “spoilerare”) diciamo subito che Contraste è rappresentato dall’ultima (rectius penultima, se l’ortodossa torta di rose è parte integrante del menu “Riflesso”) cosa che viene portata a cospetto del tavolo, cioè “Pulp Fiction”.

Specchio, nuvola di cocco, proiettili di cioccolato. “E’ un dolce che ricorda la cocaina” dice candidamente (sic) la solerte cameriera, come fosse una cosa normale. Viene in mente Uma Thurman che ci dà dentro con la polvere bianca e vede deturpata la propria algida bellezza da un’improvvisa ma non insospettabile emorragia. Viene in mente Tony Montana che dopo aver compiuto lo stesso inelegante gesto urla: ”in questo paese, prima devi fare i soldi. Poi quando hai i soldi hai il potere. Poi quando hai il potere hai le donne”.

Noi, che non abbiamo né soldi né potere, e ci resta solo di esserlo, delle donne, rileviamo che il gioco è brillante, che non ci avremmo mai pensato, che l’evocazione dell’immagine è inusuale e inaspettata. E, in effetti, il contorno è coerente: Contraste è attualmente il ristorante d’haute cuisine più glamour di Milano, la lista d’attesa è di un mese, la frequentazione è variegata e tendenzialmente lussuosa, il menu à-la-carte non esiste, solo due degustazione da 120 e 150 Euro, del quale il secondo a sorpresa, fatte salve intolleranze e idiosincrasie.

Tuttavia, la nuvola di cocco non trasmette null’altro che piacevolezza, gioco per lo sguardo e una quieta normalità alle papille. Un contrasto, quello sì, tra intenzioni scenografico-cinematografiche e risultato finale. Matias Perdomo, giovane uruguagio di algida bellezza e grande inventiva, già enfant prodige della cucina stellata al Pont de Ferr, incarna forse più di altri in città il ruolo del cuoco-artista, di homo faber della creazione.

Ci somministra una lunga schiera di amuse-bouche interpretandone alla lettera la radice edonista del verbo transalpino: sarda in saor, fragola tartare e zucchina e ricotta; poi rosa di scampi, tamal di anguilla e mais, creme brulèe di foie gras e fichi, cipolla di tropea e capra (già classico al Pont), sfera di carbonara, carciofo e olive, polpo patate e chorizo.

I primi tre serviti in un forziere di legno, con una grossa chiave da inserire ed esclamare “wow” come Alice nel paese delle Meraviglie. C’è tutto il prontuario dello chef moderno: un po’ di sferificazione, molte consistenze liquide, il gioco delle apparenze che andava di moda una decina d’anni fa (ai tempi dell’insuperato uovo apparente di Pietro Leemann), l’uso dello zucchero di ascendenza ispanica. Poi c’è il dovuto amore dello chef per la cucina orientale nel noodles di capesante e dashi, l’immancabile omaggio alla patria che lo ospita nelle cozze cacio e pepe, il ricordo ancestrale del Sudamerica ove è cresciuto nell’entrana  di manzo, verze e cime di rapa, l’obbligato omaggio a Milano nella zuppa di cassoeula contenuta in un salvadanaio a forma di porcellino dove viene inserita una finta moneta funzionale al risultato finale e anche una piccola incursione al sud con pasta mista e fagioli. Tutto molto enciclopedico, piuttosto virtuosistico, buonino e buono, ma non buonissimo.

La tartare di coniglio arrosto naviga un pochino nel suo brodo, il donut alla bolognese è bellissimo da vedere, ma come il raviolo che sa di “normali” spaghetti alle vongole, è più esercizio di stile che di intensità culinaria: ricorda quel che disse il critico cattolico Camillo Langone di uno chef creativo di cui in questo momento ci sfugge il nome, che accanto a piatti faceva “trovatine”.

C’è l’impressione vi sia una ferrea volontà di rimodellare le forme, di trasformare ciò che tradizione ha codificato in qualcosa d’altro, di sovvertire i contorni ma non i contenuti per sorprendere l’ospite senza creargli eccessivi turbamenti. E’ un gran bel gioco, si addice ai fuoriclasse, ricorda ciò che qualche tempo addietro l’avvocato Agnelli disse di Zinedine Zidane: “è più divertente che utile”. Poi, l’abbiamo ammirata tutti la carriera del francese, testate a parte.

Il talento di Matias Perdomo è prestato alla reinterpretazione personale dei classici della cucina mondiale, non è avanguardia che anticipa e distrugge, è costruzione e, in fondo, rassicurazione sotto mentite spoglie. L’unico piatto davvero notevole del percorso è il rognone di coniglio con peperone, un piatto rassicurante anch’esso, ma delicatissimo, baciato da una cottura perfetta in un momento storico in cui il rognone è diventato il nuovo piccione, spesso con esiti sconfortanti.

 

Chi scrive in queste pagine è spesso critico nei confronti dell’avanguardia, perché non di rado chi la professa cerca di stupire l’interlocutore con sapori talmente inusuali da non poter essere compresi se non da una stretta e oscura cerchia di iniziati, almeno fino a che non giunge il ragazzino irriverente e smaliziato a dire che l’Imperatore non è vero che indossa il vestito più sontuoso del regno ma disgraziatamente è nudo. Matias Perdomo non rappresenta l’avanguardia in questo senso, ma è autore di una giocosa reinterpretazione di ciò che da tempo esiste, espressa in forme ludiche. E’ un fabbro di versioni 2.0. di cose già viste, non un innovatore. Tuttavia, il suo percorso scivola un poco sull’affastellamento delle influenze geografico-culturali e sulla primazia della forma, facendo perdere di vista l’insieme generale, l’idea portante. Da un talento così fulgido ci aspettiamo un passo in più.

Matias Perdomo
Contraste, Via G. Meda 2

20136 Milano
02-49536597 


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