Menu Degustazione / Spazio Niko Romito, Milano

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Spazio, Pane e olio

di Fabrizio Scarpato
L’ondata di luce che travolge la sala affacciata sulla Piazza, l’ho ritrovata, dopo, all’ultimo piano dell’Arengario, dall’altro lato del sagrato: alle candide guglie del Duomo che fanno da sfondo alle ampie vetrate, là si contrapponeva una installazione luminosa di Lucio Fontana, qui, invece, un albero frondoso e brignoccoluto. Opere d’arte, comunque.

C’è una festa, si levano i calici a un nuovo amore. “Il suo tavolo dà sulla Galleria”: bello, raccolto, di fronte le belle finestre riquadrate dei piani alti e una luce più intima, da salotto buono. Un palloncino rosa, non saprei dire se un gatto o una Betty Boop, sale lento verso la volta della Galleria. Davanti a me una stampa delle Colonne di San Lorenzo e una zuppiera di ceramica, bianca, come quelle di casa. Luci orientate, mattoni e legno in una tendenziale sensazione di bianco e nero: solo qualche bicchiere rosso, qua e là. Intravedo le fronde dell’albero, quasi un invito a tenere i piedi per terra, a ricordare le radici. Come la marola di pane che arriva al tavolo insieme a un po’ d’olio: piatto simbolo, perché di piatto si tratta, e da tempi non sospetti. Ti vien da trattarlo con nuovo rispetto, nemmeno ti sfiora chiedere “un po’ di pane, per favore”, ché quello è “il pane”, ciò a cui tutto gira intorno. E i camerieri ne sono consapevoli, non lo fanno mancare, al pari della cortesia, che poi ospitalità e pane in fondo sono la stessa cosa.

Ma l’albero riporta anche al colore verde, quello dei boschi ma pure dei campi, delle erbe spontanee o degli ortaggi: così è profumatissimo il prezzemolo che offre equilibrata pungenza a una  Spigola marinata fresca e carnosa, un po’ meno lo sono i Funghi porcini con purea di patate, disarmanti nella loro essenzialità, mentre le Linguine con manteca, acciughe e maggiorana sono talmente al punto da semplificare la cronaca, come fanno certi fuoriclasse.

Ma è il Cavolo arrosto, mandorla, olio al carbone e peperoncino che ti fa cappottare, per l’armonia tra elementi così diversi, la scontrosità del cavolo e la dolcezza del latte, ma soprattutto perché toglie la terra da sotto i piedi, in senso letterale, elevando un ortaggio a pietanza completa, per consistenza, bellezza, morso e profumi. E un po’ come per il pane, c’è uno spostamento dell’asse cartesiano, una nuova parametrazione che fa rima con contemporaneità. Piatti verticali e senza fronzoli, immersioni più che nuotate: giù, nella più autentica tradizione meneghina, attraverso un Riso al salto molto buono, disco d’oro di zafferano, immacolato, croccante fuori e morbido dentro, ma anche nella ricerca di equilibri precari e difficili che hanno esiti meno convincenti, come l’eccesso di cipollotto nei Tortelli di baccalà con vino bianco.

E ancora più giù in un dessert, Frutto della passione, caramello, liquirizia e aceto balsamico, che è una sorta di sprofondamento in un centro benessere, mentre l’iconico Cremoso di mandorle, limone, basilico e frolla integrale, questa volta mi è sembrato poco pimpante, gessoso e leggermente seduto.

Si sta bene da Spazio, qualità, cordialità, atmosfera e prezzi civili lo fanno consigliare, non fosse altro per sentirsi al passo coi tempi. Resta tuttavia la sensazione di una certa velocità, di una vaga serialità dei piatti, viene talvolta a mancare la necessaria illusione che quel piatto, lì e in quel momento, sia stato fatto solo per te. Ti chiedi se il format alla fine non abbia il sopravvento sull’identità, sulla personalità, sull’autonomia, tanto da vagheggiare confronti con una ipotetica cucina per un attimo fuori dall’egida, pur gratificante, di Niko Romito.
Dubbi rilassati davanti a un caffè, mentre il palloncino che sembra Betty Boop sale circospetto e inesorabile, splendente sotto i raggi del sole, forse consapevole che il suo cielo, le sue stelle, saranno soltanto le pur bellissime volte di Galleria Vittorio Emanuele.

P.s.   Era gennaio. Chissà che fine ha fatto Betty Boop. Mi piace pensare che durante questa primavera drammatica il palloncino sia rimasto lì, intrappolato tra le reti dei piccioni, ad osservare il mio tavolo, la sala dove mi trovavo, l’albero fronduto, in qualche modo proteggendoli, come un improvvisato angelo custode. Fino a quando, pochi giorni fa, Spazio non ha deciso di riaprire le finestre sulla città e sulla vita.


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