
di Andrea Guolo
A Milano si trova da re. Anzi: da pascià, date le origini turche. Dentro il suo primo ristorante italiano, aperto da poco meno di un mese all’interno del luxury hotel Casa Brera, c’è un ritratto del fondatore in piazza Duomo (foto scattata all’alba, con la piazza ancora vuota e qualche piccione sullo sfondo). E poi c’è lui, in carne (Ça va sans dire) e ossa: Nusret Gökçe, conosciuto dal popolo di Instagram (52,3 milioni di follower, cosa volete che siano…) e dei social come Salt Bae, l’uomo che lancia il sale sulle bistecche. Nusret attende i suoi ospiti, me compreso: siamo giornalisti riuniti per la presentazione ufficiale di Nusr-Et Steakhouse Milano.
Si concede ai selfie e si muove con il suo consueto stile, tra un taglio di carne scenografico e la “mossa” del braccio destro con la mano a becco d’oca mentre crea la cascata di sale grosso che lo ha reso celebre nel mondo. Sta a Milano da più di un mese e non se ne andrà fino a dicembre, quando arriverà il momento delle prossime inaugurazioni in Cappadocia, Buenos Aires e poi Dubai, dove aprirà il suo terzo locale, questa volta all’interno del Dubai Mall. A Milano ci tiene particolarmente, si capisce.
“Questo è un opening importante, come lo fu quello del 2009 Istanbul, il mio primo locale con soli otto tavoli. Milano è fondamentale per me, e non sarà l’unica città in Italia dove apriremo”, mi ha raccontato tra un piatto e l’altro. A Roma, seconda sede prevista, il contratto è già stato firmato: location ancora top secret, ma pare che si tratterà sempre di un ristorante in un hotel di lusso. Quando si parte nella capitale? “Ci vorranno cinque mesi. E poi andrò a Napoli, sarà la terza apertura italiana… Napoli è una città unica al mondo, non posso non esserci”, aggiunge il “macellaio” originario di Paşali. Al quale molti colleghi della stampa hanno già fatto il “funerale”, in termini di economia, dicendo che il suo modello non regge e la sua stella non brilla più. Vista da Milano, nei primi giorni della sua esperienza, la profezia parrebbe leggermente scentrata, perché il locale – aperto tutte le sere, ma già si parla di lavorare anche a pranzo – sta correndo a pieno ritmo. Certo, Salt Bae ha mancato gli obiettivi negli Usa, dove contava sette ristoranti e adesso il numero è sceso a due (ma la concorrenza, nel Paese delle steak house, è agguerrita), e risulta in forte perdita a Londra. Ma l’esperienza insegna, nella ristorazione come nella moda, che nelle città più importanti del mondo – come Londra – i costi di locazione sono insostenibili e il personale è merce rara, quindi preziosa, eppure bisogna esserci anche se i conti non tornano, perché sono posizioni-chiave che offrono visibilità internazionale. Detto questo, ci penserei due volte prima di lanciarmi in previsioni senza neanche mettere due soldi di pegno sul bancone. Parliamo pur sempre di un imprenditore da 32 locali nel mondo e che per questo merita rispetto, che ha testato diverse piazze internazionali e probabilmente è destinato a concentrarsi nei contesti più favorevoli al suo tipo di cucina e al suo modello fondato sull’immagine, su un prodotto come la carne bovina (nel mondo arabo non ci sono problemi di natura religiosa, diversamente da quella suina) e sull’alto potere di spesa.
Del resto, i prezzi di Nusr-Et Steakhouse sono ben diversi da quella di una “normale” catena, e la qualità si muove di conseguenza. Nel menu milanese compaiono un carpaccio di manzo a 30 euro, un piatto di bresaola wagyū (per me il top del pranzo) a 60 euro, l’insalata speciale (con il tradizionale formaggio turco di capra Tulum) a 23 euro, il burger a 30 euro. E poi c’è il capitolo griglia: 270 euro per il filetto da 600 grammi, 285 euro per la tomahawk da poco più di un kg che però sale a 690 euro nella versione “festa d’oro” (il duro prezzo da pagare per chi è a caccia di like su Instagram…), senza dimenticare lo speciale rib cap di wagyū riserva privata di Salt Bae che rappresenta la novità assoluta lanciata a Milano, ordinabile al prezzo di 140 euro per 300 grammi e di 280 euro per 600 grammi.
Le carni arrivano dal Giappone (sempre la wagyū…), dagli Usa, dall’Australia e qualcosa dalla Nuova Zelanda. Le origini italiane non sono contemplate perché non allineate alle esigenze qualitative di Salt Bae o più probabilmente perché non le conosce poi così bene: alla parola “Chianina”, pronunciata da una collega, ha chiesto se intendesse il Chianti. Ma del resto c’è chi, come Dario Cecchini, in Chianti ci vive e compra comunque la carne in Spagna, quindi non ci deve sorprendere questo mancato omaggio al nostro patrimonio zootecnico: l’Italia è presente in carta dei vini e negli altri ingredienti, che non avrebbe senso importare da così lontano. A proposito di vini, i prezzi fanno piuttosto male soprattutto se si beve al calice (27 euro per il rosè 2020 di Bellavista, 31 euro per il Brunello di Montalcino stessa annata di Conti Costanti) e in bottiglia non ci sembra di aver trovato nulla sotto i 70 euro. Si mangia bene? Non c’è dubbio, e ci saremmo stupiti del contrario. Anche a Milano la concorrenza non manca, ma probabilmente il pascià del sale si è inserito nel giusto contesto.
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