
Oggi sappiamo quanto è costato ai produttori di bufala il danno di immagine della Terra dei Fuochi: 56,6 milioni di euro nei primi nove mesi del 2014. Questa è la perdita secca rispetto ai 174 milioni fatturati con l’export nel 2013. Una vera e propria emorragia che non accenna a diminuire, visto che in termini percentuali il terzo trimestre segna -44,7% rispetto alla media del -38,4% tra gennaio e settembre. L’amara verità è registrata nel consueto rapporto elaborato dalla direzione Studi e Ricerche del Banco di Napoli sull’andamento dei principali distretti economici del Mezzogiorno.
A nulla sono serviti i responsi scientifici di chi per dovere pubblico deve assicurare la salubrità del cibo in commercio, Asl e Istituto Zooprofilattico di Portici. Nulla ha prodotto neanche il coup de theatre del Consorzio di Tutela che fece analizzare dei campioni raccolti dalle associazioni dei consumatori senza preavviso per consegnarli direttamente ai laboratori tedeschi. Il punto vero è che l’identificazione della mozzarella con il disastro della Terra dei Fuochi esercita un fascino irresistibile presso alcuni media, una deriva verso la quale sembra proprio non ci sia più nulla da opporre.
La mozzarella, insomma, è la metafora della comunicazione all’epoca della globalizzazione, dove se si ammala un pollo in Vietnam in giorno dopo la signora Rossi evita di comprarlo dal proprio macellaio di fiducia.
Non è difficile a questo punto prevedere dunque un declino del comparto che fiduciosamente si affida solo alla memoria corta dell’era di internet durante la quale il sapere si ricostruisce ogni giorno grazie agli algoritmi di Google e non attraverso una autorità scientifica e istituzionale riconosciuta.
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