
di Tommaso Esposito
Se non c’è un pizzico di follia le cose non si pensano e non si fanno nemmeno.
Marco Capasso, ideatore e curatore di Magna la mostra che si è appena inaugurata nel complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli, di follia ne ha più di un pizzico.
Ne ha tanta, ma tanta tanta.
Se non fosse così non si sarebbe cimentato nella progettazione, nell’autofinanziamento senza alcun sostegno pubblico e nell’allestimento di questo spaccato, ora diacronico ora sincronico sulla cultura alimentare dei napoletani.
Qualche cosa è riuscita bene.
Come la sistemazione in uno degli edifici cittadini più belli.
Come pure il prologo – passaggio attraverso gli orti di Napoli.
Come pure ancora il percorso presepiale, dove i venditori del settecento fanno sentire finanche le loro voci e le loro canzioni.
Qualche altra cosa riuscirà benissimo.
Sono i contenitori ancora da riempire.
Uno di questi è Pulcinella che sul presepe come a tavola si trova a suo agio.
Lo testimoniano le pagine scritte dai viaggiatori e scrittori di lingua tedesca, come Wolfang Goethe, Philipp Josef Von Rehfues, Friederike Brun, Carl August Mayer, giunti nella capitale del Regno tra il finire del 1700 e gran parte del 1800.
Rimasero incantati dinnanzi al presepe allestito nelle case patrizie o nelle sagrestie delle chiese.
Descrissero il lavoro degli artisti, che nelle loro botteghe modellavano i pastori e vestivano gli angeli.
Intravidero la dimensione di un tempo alto, Höher Zeit, dove il sacro e il profano si fondevano, piuttosto che disgiungersi.
Narrarono di Pulcinella tra Benino e i Re Magi, che con ”la sua allegria porta via il senso della devozione dei pastori.”
Colsero lo spaccato di una quotidiana vita cittadina, di una irreale Betlemme in cui pullulavano ciabattini, lavandaie, contadini, venditori di cognole e melloni, acquaioli, pescivendoli, fornai, macellai, castagnari, recottari, ruagnari, sausicciari, padulani, carnecottari.
Una Betlemme ricca di osterie e di taverne: tante quante, forse 480, ne aveva la stessa Napoli.
Ammirarono sul presepe quello che spesso ci sfugge: il trionfo e dei prodotti della terra e l’ostentazione del cibo.
Quarti di manzi, testine di vitello, piedini di porco, salsicce e soppressate, ricotte, caciocavalli, maccheroni e “l’infinita famiglia dei pomi, delle duracine, dei zuccherini, delle giuggiole, dei frumenti, dei legumi, delle farine; e pine, e uve, e poponi, e mandorle, e noci, e castagne, e avellane… Secchi, sucosi, di colori mille. E tanti son che paiono d’acqua stille.”
Una grande tavola imbandita, insomma, che lasciava dire ad Henry Lyonnet, uno scrittore francese passato per Napoli all’inizio del Novecento: “qui la vita sociale a Natale è sospesa. I poveri diavoli rassegnati a morir di fame tutto l’anno vogliono mangiare ventiquattro ore di seguito senza interruzione.”
A Magna gustatevi questa immagine del presepe napoletano.
Che resta e sarà il più realistico teatro delle specificità e delle identità gastronomiche regionali.
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