Notti del rosato. I produttori bevono i produttori e piccola inchiesta sensitiva: perché i ristoratori non lo propongono?

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di Monica Piscitelli

Due novità nell’ambito delle Notti del Rosato che ha allargato, quest’anno, anche alle Bollicine: le degustazioni di rosati francesi a cura di Giovanni Ascione, nel tipico suo stile disarticolato e ricco di spunti di riflessione e studio, e le due degustazioni dedicate ai produttori. Una formula del tutto nuova che la sottoscritta, con Francesco Muci, co-coordinatore per la Puglia della guida Slow Wine, ha provato ad interpretare al meglio mettendoci un po’ di fantasia. La traccia su si è lavorato: “far bere ai produttori i vini degli altri produttori, regalar loro un’oretta di aggiornamento e gioco prima dell’inizio della kermesse, selezionando e proponendo a due voci sei etichette”. Ne è venuto fuori un gioco di società, la società di chi fa vino.

L’idea di “i produttori bevono i produttori” ha certamente nelle pagine di questo sito la sua origine. Più volte si è provato a ficcare il naso nella faccenda “che bottiglie si trovano sulla tavola di chi le bottiglie le produce”, eppure non si è del tutto esaurita la curiosità. Parlo di curiosità, ma la questione è, invero (penso di interpretare anche il pensiero del promotore della degustazione, con questo), qualcosa più che un capriccio. E i risultati delle due serate parlano chiaro in questo senso.

Vestite rigorosamente le bottiglie in degustazione, i produttori, si sono spogliati in qualche modo della paura di un giudizio sul proprio prodotto e lavoro, e sono stati al gioco: si sono espressi, con tutta la voglia di capire e farsi capire che hanno potuto, sul vino proprio e altrui. Si è giocato insieme a provare a individuare le provenienze, i vitigni, le tecniche e cosi’ via. Alla fine, inconsapevolmente posando la prima pietra di un nuovo dialogo tra “avversari”, tra un commento dell’ottimo Muci – che si è occupato della descrizione della realtà produttiva di Puglia e Abruzzo – e quello mio, che mi sono dedicata alla Campania e alla Basilicata – sono venuti fuori una serie di spunti interessanti sulla identità del rosato, sulla sua ragion d’essere nella gamma aziendale, sul modo di concepirlo e realizzarlo da parte dei produttori, sulle prospettive della tipologia e sulle armi a disposizione per renderlo più attrattivo. Insomma: tutti hanno contribuito, con tutta la capacità di confrontarsi e dialogare che è in genere considerata merce rara tra gli imprenditori del Sud. Per questo, e per la fiducia che ci hanno accordato, li ringrazio di cuore.

Come è andata
Le degustazioni si sono aperte con alcuni dati e un breve resoconto sullo status quo del rosato che ho chiamato “Piccola indagine sul rosato che va e che non va” e che è il frutto di una piccola indagine che ho condotto nei giorni precedenti la kermesse tra appassionati, ristoratori, enologi, agronomi, sommelier, degustatori, sommelier, giornalisti e produttori. Un piccolo gruppetto (che ringrazio per la sollecita risposta), composto da uomini e donne, ha risposto a un questionario sulla percezione della tipologia rosato, con i suoi punti di forza e debolezza, e sulla sua visione dell’offerta campana in particolare. Senza velleità di scientificità, ecco i risultati della “indagine”.

La piccola indagine
LA VERSATILITA’ A TAVOLA e LA FRESCHEZZA/ BEVIBILITA’ (al 50% ciascuna) sono i PUNTI DI FORZA del rosato per gli intervistati. Solo per uno di loro, il COLORE.
Sui MOTIVI DELLA DEBOLEZZA la risposta è stata più articolata, gli intervistati hanno preferito spiegarsi, compilando sotto l’opzione “ALTRO”, uno spazio apposito. Emerge cosi’ che la PRODUZIONE NON E’ ALL’ALTEZZA, che, secondo gli intervistati, non sempre sono sfruttati i VITIGNI GIUSTI e che la tipologia soffre un difetto di COMUNICAZIONE. Una piccola parte confluisce sull’idea che il rosato è percepito come ANONIMO. Il fatto che i rosato possa dare l’IDEA DI UN VINO FEMMINILE, invece, non ha avuto il consenso che mi aspettavo. E questo sfata un primo falso mito sui motivi dello scarso gradimento del rosato.

Quello del capitolo CONSUMO rappresenta un difficile passaggio. Piu’ della metà NON CONSUMA affatto rosato e dichiara di PREFERIRGLI sia bianchi che rossi.
Tra chi lo beve c’è un gruppo di INDEFESSI sommellier, o degustari, che lo consumano per lo più per RAGIONI DI LAVORO.
Per lo più questi non superano i 5 bicchieri al mese, solo un paio arriva a 5-15.
In ogni caso, la cosa sorprendente, è che i suddetti indefessi, per lo più, NON LO PROPONGONO AD AMICI O PER LAVORO (questo dato ha fatto emergere la necessità di un’azione mirata da parte dei produttori su ristoratori e sommelier, quelli che sono gli influenzatori del pubblico). Altra cosa interessante è che il rosato è dagli intervistati, se e quando bevuto, consumato con gli AMICI o a CASA. Quindi prevale una dimensione sociale di questo genere di vini.
Poi si passato ad esaminare le ragioni della presenza del rosato nella GAMMA AZIENDALE. 1/3 degli intervistati ha detto che è un COMPLETAMENTO desiderabile,
1/3 una pura esigenza COMMERCIALE e per 1/3 potrebbe essere (ma non è detto che sia) l’ESPRESSIONE DI UN VITIGNO O TERRITORIO.
Per fortuna nessuno ha dichiarato che è UNA TIPOLOGIA INUTILE e neanche LO SPAZIO PER UNA PRODUZIONE SCADENTE.

Tutti, a parte i semplici appassionati intervistati, conoscono bene L’OFFERTA CAMPANA di rosati o VORREBBERO CONSCERLA MEGLIO.
Non si registrano, però, buone notizie sul fronte della valutazione della PRODUZIONE della CAMPANIA. Questa è considerata dalla metà degli intervistati BUONA e dalla metà MEDIOCRE. Interrogati su quali siano i TERRITORI più vocati per la produzione di rosati, escono fuori bene l’IRPINIA (mediamente 7 +), la COSTA D’AMALFI E COLLINE SALERNITANE (mediamente 7), seguite dal SANNIO e CASERTA (con una maggiore variabilità delle valutazioni per quest’ultima). MEDIOCRI LE ALTRE produzioni: NAPOLI, Campi Flegrei e Vesuvio, oltre al Cilento.

Parlando dei VITIGNI più vocati alla produzione di rosato, meglio dell’AGLIANICO fa solo il PIEDIROSSO. Una sorpresa è la buona considerazione di cui gode il TINTORE. Una risicata minoranza segnala PALLAGRELLO E CASAVECCHIA.
Sono quasi tutti d’accordo che la produzione campana è SOTTOSTIMATA, 1/3 poi, approfondendo, dice che è IN CRESCITA, 1/3 che è IN RITARDO e 1/3 che non SI DISTINGUE AFFATTO.
Per quanto riguarda la POSIZIONE DELLA CAMPANIA, per nessuno la regione è leader. Alcuni non si sono espressi, ma chi lo ha fatto la vede preceduta in classifica dalla PUGLIA (della quale abbiamo Francesco Muci ha proposto in degustazione tre etichette), dai rosati del GARDA O e della LOMBARDIA in genere (penso a Corvina Veronese, la Rondinella, il Groppello e il Marzemino ma anche ai rosè di Franciacorta e Oltrepò Pavese) e da quelli dell’ ABRUZZO (due Cerasuolo sono stati proposti in degustazione) rispetto al quale segue o precede. Qualcuno, una minoranza, segnala ALTO ADIGE (pensiamo a Lagrein e Schiava) e SICILIA (pensiamo a Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Syrah).
In generale, come valutazione finale, dei vini rosati campani si segnala la PIECEVOLEZZA, ma anche che sono WORK IN PROGRESS, il fatto che in sostanza siano ancora IN CERCA DI IDENTITA’.


Due considerazioni

Il vino rosato ancora arranca, schiacciato dal dualismo bianco – rosso. Questo sebbene tutti gli dimostrino simpatia e sostegno. Scongiurata, a principio 2009, l’ipotesi paventata all’Ue di autorizzare la mescolanza di vini rossi e bianchi per la produzione di rosati (cosa che resta ed è tradizionalmente fatto in Champagne per questo genere di prodotti che è sempre più caro dei Blanc de noirs o dei Blanc de blancs) i rosati si possono realizzare solo per pressatura diretta di uve rosse giocando su modalità e tempi di macerazione delle bucce, o per pressatura di uve bianche e nere in uvaggio. Il colore (è emerso chiaramente dalla chiacchierata con i produttori), è un aspetto sul quale si appunta molta attenzione. Forse anche troppa e spesso con una scarsa considerazione perfino della migliore espressione del vitigno utilizzato e del progetto che il produttore ha per il suo vino. Spesso per valorizzare questo colore si utilizzano bottiglie trasparenti, in barba alle regole per un sano e duraturo invecchiamento. Dal vetro bianco il rosato ammicca al cliente.

Ma il colore non è solo un fattore attrattivo, dicendo molto di più sul corredo polifenolico del prodotto finale, oltre a evidenziare derive ossidative o altri problemi dovuti alla impostazione del lavoro stesso a monte.
E’ noto che il vino rosato, ha il suo antesignano nella Lacrima, cioè quella prima porzione di mosto, general¬mente di colore gialliccio ottenuta dalla compressione naturale delle uve nei palmenti, prima della pigiatura da parte dei «calcatores».
Plinio lo chiamava «PROTROPUM» e Columella lo definiva «MOSTUM LIXIVIUM>. Era considerato un prodotto per gusti raffinati, molto delicato, destinato agli ospiti di riguardo. La Lacrima veniva tenuta a parte o mescolata con miele per essere servita come aperitivo, oppu¬re passava nei dolii per la fermentazione insieme al mosto «calcatum».

Dal web, i dati
Il rosato riscuote un crescente successo soprattutto nei mercati del NORD EUROPA, in cui il consumo di rosé sta sostituendo sempre più quello della birra durante gli happy hour pomeridiani.
Di grande interesse è il mercato britannico che per il rosé italiano rappresenta l’8,9% dei vini complessivamente esportati. L’Italia è al 2° posto come Paese fornitore alle spalle degli Stati Uniti e davanti alla Francia.
Dati Vinexpo/IWSR (International Wine and Spirit Record) di marzo 2009 che stimano i mercati mondiali del vino fino al 2012 proponendo una visione del uturo per il mercato del vino a dir poco brillante, affermano che il CONSUMO di vino rosé nel mondo dal 2003 al 2007 è cresciuto del 13%, per un quantitativo di circa 219 milioni di casse.
Per il 2012, secondo Vinexpo/IWRS, l’interesse del vino rosé potrebbe crescere ulteriormente (a ritmi del 3,3% all’anno), superando le 257 milioni di casse.
Cioè una quota pari al 10% delle bottiglie complessivamente commercializzate.
Ciò vuol dire che le casse di vino consumate nel Mondo diventeranno 2.6 miliardi nel 2012. Di queste, 257 milioni di vino rosato. Mentre 1.3 miliardi saranno di vino rosso, 1 miliardo di vino bianco. (E’ bene ricordare che erano 2.46 miliardi nel 2008, contro le circa 2.3 nel 2003).

 


Note di degustazione

I vini della prima serata
Cantine Barone e Fontanavecchia (Campania), Cantine del Notaio (Basilicata); Mille Una, Leone De Castris (Puglia) e Pasetti (Abruzzo).
Commenti: si va dal vino piacevole rosa quasi confettato di Cantine Barone alle interpretazioni quasi rosse, cupe e complesse al naso di Leone de Castris e Cantine del Notaio. Che il rosato non sia un vinello lo dimostrano questi due ultimi vini insieme al prodotto di Mille e Una, con i suoi 14,5 gradi d’alcol. Tutto frutto.Si passa per una interpretazione più nei canoni del rosa e con una buona eleganza di Fontanavecchia.Merito del freddo del Sannio.

 


I vini della seconda serata

Martino (Basilicata), Reale e Tenuta del Cavalier Pepe (Campania); Santi Dimitri e Cantine Monaci (Puglia) e Torre dei Beati (Abruzzo).
Commenti: una minore variabilità dei colori in questa serata, ma una gran voglia dei produttori di chiacchierare su i vini tendenti al “giallo” dei francesi e sui vitigni piu’ adatti alla vinificazione in rosa. Tra i campioni, ugualmente, si va dal rosa tenue leggermente salmonato del vino di Milena Pepe (spiccatamente minerale) a quello cerasuolo degli altri, con varie tonalità. Le sfumature del vino da Montepulciano di Torre dei Beati vanno nel violaceo. Il Tintore marca il bicchiere di Reale, seppure presente al 20%, mentre quello di Martino evidenzia al naso una piccola percentuale di Malvasia Bianca. La Puglia con i Negroamaro si fa rispettare in questa batteria. Tanta acidità e frutta nera.


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