
La pasta è un piatto simbolo della cucina italiana, ma sotto questo universo costellato da 300 formati – tanti sono quelli prodotti dai pastifici nazionali – l’Italia ancora oggi si divide con Roma a far da spartiacque: sotto la capitale la pastasciutta piace liscia. Al punto che nei pastifici, come ha sottolineato Giuseppe di Martino dell’omonimo pastificio di Gragnano (Napoli) in un incontro Aidepi
sull’architettura a design delle semole a grano duro, le linee di produzione si dividono: con «uso Roma» si intende la pasta rigata, rigatone o penna che sia. Stile «Napoli» sono invece le zite e le mafaldine insieme a tutte le variazioni di formati lisci, perché, ha ribadito di Martino, «da Roma in giù la pasta si mangia liscia. Vengono invece indicate »uso Bologna« le farfalle, un formato che riproduce la tradizione emiliana della pasta sfoglia e che richiede, sia in produzione che in cottura, un buon equilibrio tra le ali e il nodo».
La pasta è una invenzione urbana, non delle campagne.
Già nel terzo secolo a.C. una produzione essiccata di lagane veniva considerata la derrata ideale per le scorte in caso di assedio. E fu Ovidio a descrivere un piatto di lagane e ceci come cibo dei soldati Romani».
All’estero invece il primo piatto più in voga è lo spaghetto alla bolognese che spesso però, osserva di Martino, «lascia ragù e condimento sul fondo, mentre se si facesse formazione gli stranieri farebbero fettuccine alla bolognese e ancor meglio formati concavi. Finendo di chiamarli maccheroni (Ansa)
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