Tutto quello che dovete sapere sul pesto ligure

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

Pesto ligure

di Fabrizio Scarpato*

Sciù Baccicin, te piaxen ‘e trenette au pesto?

I liguri, del mare, forse non hanno mai saputo cosa farsene: lo guardano, lo sentono, lo navigano, raramente pescano e se lo fanno, prendono pesci da conservare, da metter sotto sale, da portare a terra.

I liguri, specialmente quelli della costa di Levante, dico costa perché di riviera ce n’è punta, sono prevalentemente contadini, han costruito paesi e città affastellate e arroccate contro i monti incombenti, quasi ad allontanarle il più possibile dal mare, muri da difendere, dalle onde e dagli aggressori che dal mare potevano venire.

Città disordinate, da vivere a stranguglioni e in salita, che però sono bellissime se viste dal mare, quasi un invito a tornare, a riguadagnare la terra ferma, la terra da coltivare.

O l’aveiva lottou pe mette i dinèe a-a banca
e poeisene un giorno vegnì in zù
e fasse a palassinna e o giardinettu
coo rampicante, coa cantinna e o vin,
a branda attaccà ai arboi, a uso letto
pe daghe ‘na schenà seia e mattin.
Ma se ghe penso alloa mi veddo o mà
vedo i mè monti e a ciassa da Nonsià…

La Liguria non è blu, è verde: son verdi gli olivi e le vigne, hanno riflessi verdognoli l’olio e i sapidi vini bianchi, son verdi i gambi dei fiori e le erbe aromatiche. Verde il timo e il rosmarino, verdi le ginestre e i boschi dei monti. Verdi il prezzemolo e la borragine, verdi molti dei piatti più conosciuti: la torta pasqualina, la cima ripiena, la salsa verde, le torte d’erbi e il preboggion. Verde è il basilico e verde il pesto.

 

 

La constatazione di quanto questa terra curva sia impregnata di verde, può autorizzare anche l’evidenza che sia una terra al verde: in effetti non si naviga nell’oro stante poi una certa qual tendenza, secondo l’iconografia più trita, a lamentarsi spesso, mugugnare, e a cercare di spender poco ( ho finito le perifrasi).

O trilli trilli trilli t’è ciù musse che mandilli,
mandilli no ti n’è, t’è ciù musse che dinè

Laddove, per traslazione, starebbe per “chiagne e fotte”, ma i soldi, i dinè, sempre pochi sono. I mandilli sono i fazzoletti e non stanno qui per caso, perché i mandilli de sea, fazzoletti di seta, sono una delle paste fresche, praticamente dei malfatti, delle lasagnette difformi, che più spesso sono condite con il pesto.

Così il cerchio è chiuso e pur avendola presa molto alla larga, tra una lacrima e l’altra, è proprio del pesto che vorrei parlare.

Il pesto alla genovese non è una salsa, ma uno stato dell’anima: già definirlo alla genovese ne limita il significato, perché il pesto si fa dappertutto in Liguria, in tutte le città, in tutti i paesi e in tutte le case, non solo, ma dentro la casa anche madre e figlia, magari, fanno il loro rispettivo e rispettabile pesto.

 

 

Non ce n’è uno uguale: come le persone, come il carattere, come l’anima di ciacuno di noi. Anima e carattere ligure, però: ché se passi un qualunque confine, ad eccezione di quello ligure-lunigiano, (ma solo di pochi chilometri), quella salsa densa e verde non sarà più la stessa, non tanto per le materie prime, ma per l’abitudine, il gusto, l’attitudine, insomma quella cosa così sfuggente che molti chiamano territorialità. Più comprensibilmente, esperienza e cultura. Savoir faire direbbero i francesi e certi piemontesi che svernano in cima a un faro sulla riviera di ponente: smanegadua, diremmo a Spezia, smanicatura, che già è bello questo senso del saper fare tirandosi su le maniche: a proposito di contadini che devono camallarsi ( portare a spalla) uva, basilico, erbe e olive e tutto quel che volete, su è giù per terre spesso ripide e a balzelloni. Ovvio, poi, mugugnare.

Ecco perché il pesto è l’anima dei liguri, ci si cresce: e come tale non esiste un pesto definitivo, ma anzi la sua bontà sta proprio nella assoluta indefinibilità, nella più totale irrisolvibilità del mistero. E’ il pesto, bellezza.

Per i motivi suddetti io mi asterrei dall’elencare la lista della spesa e la “non ricetta” del pesto: la si può leggere ovunque, mai uguale, ovviamente. Soprattutto perché, se andate a chiedere le dosi, quasi sempre vi risponderanno vagamente, tipo “due o tre”… un pugnetto, una manciata, fino al precisissimo “un po’ ”. Di una cosa sono ormai abbastanza sicuro: scordatevi il mortaio. Il recipiente di marmo dotato di pestello di legno fa parte dell’ordinario armamentario simil bucolico che intristisce gli stili rustici: con un qualche valore affettivo se di marmo e usato, segno di mesta faccia tosta se di plastica e intonso. Nessuno pesta più nel mortaio, si usa il frullatore: che comunque non semplifica la procedura, anzi a sua volta ha aperto beghe non da poco su particolari apparentemente secondari che però vengono contrabbandati come segreti risolutivi. C’è chi aggiunge un cubetto di ghiaccio, chi mette tutto il cestello in frigo, chi addirittura in freezer prima dell’uso: insomma la prima tritata deve esser fatta a freddo, vuoi per preservare il colore, forse per agevolare la salsitudine, forse per evitare lo shock termico al basilico. Il calore lo ossida e l’ossidazione è come la peste: quindi freddo, foglie piccole ( i lenzuoli di basilico lasciamoli ad imbellettare una pummarola) e brevi, brevissimi scatti delle lame, che a loro volta non abbbiano a riscaldarsi troppo, assolvendo ad una non gradita, nè necessaria, funzione di calorifero. Va da sè che è per questo motivo che in Liguria le vendite di frullatori sono doppie rispetto al resto del Paese.

 

 

Bene dunque il tenero basilico di Prà, ma anche quello delle Cinqueterre, bene i pinoli, bene il parmigiano, bene il pecorino (ma se ne può fare a meno), bene pochissimo aglio (sul quantificare il pochissimo non resta che alitare in faccia a qualcuno nel dopopranzo e vedere, non proprio di nascosto, l’effetto che fa), bene poco sale grosso, benissimo, necessarissimo il miglior olio extravergine possibile fatto cadere a filo ad addensare la salsa. Dalle mie parti non ci sono tracce né di prescinseua (formaggio molle, fresco e acidulo), né di colui che ha proposto di aggiungere il filadelfia: l’hanno rincorso ed è scappato. Belinate.

Il pesto colora di verde tenue, mai scuro, le paste fresche: i mandilli, se di morso, son favolosi, ma si trova a perfetto agio con le trofie e coi gnocchi, non dà il massimo, invece, nelle lasagne al forno. Il pesto non dovrebbe cuocere, per quel che vale il mio parere. Nella vita di tutti i giorni, tra le paste secche, la morte sua sono le trenette (linguine o bavette), di buona soddisfazione sedani e penne rigate, meno divertenti gli spaghetti che assorbono troppo e necessitano di una buona spalla con l’acqua di cottura. Non disdegnerei un giro, e relativo testa coda nord-sud, con qualche pacchero nerboruto.

Se poi la salsa risultasse monotona (non lo è mai se gli ingredienti sono in dolce equilibrio), sarà facile trovare il pesto addizionato di patate a tòcchi e fagiolini verdi, oppure zucchine. Qui non lo dovrei menzionare ma esiste anche un pesto di zucchine, niente male su ravioli ripieni di erbe e ricotta e cosparsi di mandorle tostate: sul come farlo, vale la stessa regola, una manciata, qualche, un po’.

 

 

Segnali evidenti di contadinità, profumo di orti, di terra lavorata. Transumanze, pellegrinaggi lungo la via francigena, sguardo sempre rivolto verso l’entroterra: sarà per questo che il pesto è il condimento principale dei testaroli lunigianesi e dei panigacci dell’alta val di Magra, ma anche dei testaieu delle Valgraveglia e della Val di Vara: chi e perchè abbia passato per primo, in un senso o nell’altro, il passo del Rastrello, tra Liguria e Toscana, non è dato sapere. Sottigliezze, anche oro-geografiche. Sta di fatto che il pesto deve esser piaciuto, così come i testaroli, a essere obiettivi.

Sciù Baccicin, te piaxen ‘e trenette au pesto? Il personaggio e la frase ricorrevano nelle storie di mio nonno: non saprei dire esattamente chi fosse, sicuramente un rompiballe scontroso, forse un carattere della commedia popolare dialettale, forse una sorta di Braccio di Ferro che traeva forza dal basilico. Meno probabile che servisse a farmi mangiare la pasta al pesto: non avevo di questi problemi. Ma quella frase mi torna alla mente quasi fosse un intercalare, una frase apparentemente senza senso, ma che alla fine tracciava un’appartenenza, una tradizione, un sentimento popolare.
Il pesto come simbolo culturale: sempre diverso, inclassificabile, allegramente anarchico eppure unificante.

Allora Sciù Baccicin potrebbe ricordare Luca Cupiello, e il pesto somigliare al suo presepe: non importa come, non importa perchè, ma continuiamo a farlo, per bene e in casa, anche se dovesse sembrare un’ anacronistica e cieca perseveranza, esito di un’ apparente ingenuità.

Per riconoscerci, tra un mugugno e l’altro.

*questo pezzo è stato ascritto nell’aprile 2012

Pesto ligure


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