Copenaghen è una meta gastronomica, questo ormai lo sanno tutti. SURT, però, è un’altra cosa: è una Sicilia che in Sicilia non trovi quasi più.
di Bruno Sodano
Ti accorgi di Surt, che in danese significa acido, ancora prima di entrare. Il locale è sempre pieno, sempre in tensione positiva, con un ritmo che ricorda più la sala di un grande ristorante che una pizzeria. Durante la settimana i tavoli viaggiano a una velocità e con una precisione quasi militare: la sala comunica con il forno, il forno con la sala, e tutto fila come se ogni gesto fosse provato e riprovato.
Eppure qui nessuno recita. Qui lavorano.
Dall’altra parte della strada c’è la banca del lievito più antica del mondo, la Carlsberg, dove nel 1883 hanno isolato il primo ceppo puro che ha cambiato la storia della birra. Dentro SURT, invece, il lievito è vivo, istintivo, umorale. E in mezzo a questo gioco di opposti c’è lui: Giuseppe Oliva, siciliano, ex capitano di navi mercantili e da crociera, uno di quelli che definiresti “pazzo” nel senso buono. Perché devi essere un po’ pazzo per portare tutto te stesso a mille chilometri da casa e farlo con una devozione così viscerale.
Forse la Sicilia gli manca talmente tanto, o forse la ama così tanto, che ogni profumo del locale – nascosto tra le luci soffuse tipiche del Nord Europa – ti riporta a un’isola che brucia di sole. Durante la cena mi sono chiesto più volte come sia possibile: sei a Copenaghen, eppure senti agrumi, grano, pomodoro secco, prepotenza marina. SURT non è soltanto gastronomia: è identità messa in scena.

E poi c’è la cantina. Una cantina che parla siciliano in tutte le lingue, con etichette rare e preziose, bottiglie che molti ristoranti dell’isola non hanno mai visto. Ci sono vini di piccoli produttori, di vignaioli giapponesi che hanno scelto di coltivare in Sicilia, di territori quasi introvabili. Per chi ama il vino, è un brivido. Un tributo all’enologia siciliana come non ne avevo mai visti, neppure giù al Sud.


La cena può cominciare con un gesto che sembra niente e invece è tutto: un pomodoro siccagno al naturale diviso a metà, con extravergine di oliva, sale e nessun pane. Qui non si fa la scarpetta, qui si ascolta. È il pomodoro che Oliva si fa realizzare ogni anno da un piccolo produttore siciliano, lo stesso che ritrovi su molte delle sue pizze. È un ingrediente che non vuole compiacere: vuole dire chi sei. E la sua massima espressione arriva sulla marinara.
Dico la verità: io una marinara non la ordinerei quasi mai. Una scelta che faccio per abitudine, sbagliando. Perché quella di SURT, solo a guardarla, mi ha fatto venire fame. E la frase che sto per scrivere è vera, senza iperboli: la marinara che ordinerei 100 volte, forse la migliore mai mangiata in vita mia, è uscita dal forno di SURT a Copenaghen.
Non dico “di Giuseppe Oliva”, perché questo è un locale che ragiona come squadra. Vederli lavorare ti fa capire immediatamente che qui non c’è un eroe solitario: c’è una rotta comune, una disciplina gentile, una mano collettiva che impasta e serve.
Eviterei frasi tipo “impasto alveolato”, “idratazione perfetta”, “cornicione così o cosà”. Non servono. È evidente che siamo in una delle pizzerie più solide e rispettate d’Europa, inserita tra le migliori pizzerie del mondo per 50 Top Pizza ed è presente in diverse classifiche internazionali. Quello che conta è altro: ogni pizza è un viaggio e ogni boccone aspetta quello dopo.
Non ti stanchi, non ti annoi, non cerchi difetti. Cerchi spazio per un’altra fetta.

La parte brutta è la presa di coscienza finale: dopo tre giorni a Copenaghen devi tornare a casa. E non puoi passare tutte le sere da SURT come vorresti. Ti riprometti di tornare, perché è vero che la pizza buona ormai si mangia ovunque, ma è altrettanto vero che da Surt capisci dove sta andando la pizza, dove sta andando la fermentazione, dove sta andando la cucina contemporanea.
Ed è incredibile che a ricordartelo sia una Sicilia che splende più forte… proprio nel cuore della Danimarca.
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