Risotto mantecato Nino Bergese: la Suprema voglia di classico

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

E’ una sera qualunque di un capodanno qualunque, giacca e cravatta blu per dare un tono alla notte dei miracoli, ormai sbiaditi e lisi, come le parole di una vecchia canzone alla quale, pur prestando tutta l’attenzione possibile, oggi non credi più. Un classico.

Risotto mantecato Nino Bergese, e non sembra un caso che non dica alla, come, secondo Nino Bergese: il risotto è quello, ha nome e cognome, e una faccia, solcata da suadenti lacrime, bistrate di fondo bruno di vitello. Un classico.

Un traballante bianco e nero cerca Walter Bonatti in arrampicata invernale sulla nord del Cervino: puntino sfocato e mosso sulla parete di roccia e ghiaccio, diritta a strapiombo. Non porta con sé chissà quali attrezzi, sale di braccia e di gambe, una mano dopo l’altra, un appoggio dopo l’altro, senza cronometri o record da segnare. Solo chiodi, pochi, e corde fruscianti, salde come la sua orgogliosa passione. Qualcuno lo chiama alpinismo classico.

Lo sfasamento percettivo della rivisitazione ha finito col deragliare fragorosamente, oltre che procurare nei soggetti sensibili inopinati attacchi di orticaria. Mètope e capitelli dorici su grattacieli di cristallo stridono agli occhi, definitivamente persi nel passato prossimo, non diversamente da destrutturazioni e allusioni schiumogene su cibi alieni. Il postmoderno cede il passo all’autenticità: mentre lo spiazzamento modaiolo mostra la sua intrinseca debolezza, la tradizione si sfianca nella mesta ripetitività museale, lasciando spazio ad un ritemprante, coraggioso, etico senso del classico.

L’onda del riso è calma e lenta, i chicci schioccanti, tutti in fila, che li potresti quasi contare, in un abbraccio languido tra la dolcezza della cipolla e la forza del fondo ristretto, tirato, quasi caramellato da sobbollii estenuanti, anche solo a pensarli. E il primo pensiero è chiederne un altro piatto, e non mi spiego del tutto la forte tentazione di dirlo in un arrotatissimo francese. Cucina cucinata, mano attenta e rispettosa, compresa nel gesto, che già di per sé è classico.

Qualcuno domanda se davvero un alpinista può essere elegante. Non c’è contraddizione: l’eleganza è visibile nelle traiettorie lungo la roccia, nel gesto tecnico fortemente discreto, nell’armonia tra uomo e natura. L’eleganza è scelta, consapevolezza, capacità, disegno, è la linea più breve, la via. C’è eleganza nel rispettare la montagna affrontandone le taglienti asperità, c’è eleganza nelle dita posate su una tastiera, c’è eleganza nel balzo in spaccata sul proscenio del Lago dei Cigni, così come nel tiro a giro all’opposto incrocio dei pali: c’è eleganza nel saper pensare e mantecare un risotto con nome e cognome, come un monte da scalare che ti mette alla prova, rivelando qualcosa di te. Lampi dell’anima, che si alimentano di classicità, vivono di interpretazione. Mai uguale, sempre unica.

E’ una sera qualunque di un capodanno qualunque, giacca e cravatta blu ad afferrare, nell’aria friccicosa, l’impalpabile e fugace fruscìo della bellezza. E’ la notte dei miracoli, fai attenzione…

Ristorante La Suprema, La Spezia

Chef Davide Raschi

Postilla: nella notte dei miracoli una macchina fotografica è sacrilegio, per questo ho preso a prestito il risotto mantecato al fondo bruno delle Antiche Volte (CN) immortalato nel 2009 da www.passionegourmet.it


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