di Fabrizio Scarpato
Aguzzo, aspro, accidentato. Naso e bocca non rinvengono nulla che possa minimamente ricondurre
a qualcosa di confortevole e morbido. Questo vino è una sorta di bosco fitto e impenetrabile,
raccontato nei toni ombrosi e scuri: dal granato al nero, dalle more al muschio, dalla marasca alla liquirizia,
dalla terra bagnata e umida, fino alle radici di china e rabarbaro. Cammini calpestando stecchi secchi
e piegandone altri, ancora verdi. Qua e là qualche pianta di menta. Eppure il colore limpido e il sorso sapido,
rinfrescante, fanno da contraltare all’oscurità, come salubri folate di vento nel sottobosco.
Eppoi i tannini, a stendere una rete che tutto raccoglie e imprigiona: avvolgenti, fitti, spessi e detergenti,
fino al finale amaro e agrumato, forse esiti che hanno a che fare col bergamotto. Così, alla stregua di una camminata nel bosco,
il viandante col bicchiere in mano a un certo punto rallenta il passo e, appoggiandosi a un tronco centenario,
riflette sulla netta, seppur breve sensazione di un sorso rigenerante, come di vermouth rosso, antica formula.
E se ne rallegra.
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