di Fabrizio Scarpato
Bellissimo, va senza dire. Buonissimo, pare ovvio, ché un risotto non contempla le mezze misure, tanto meno le incertezze dell’abbastanza. Perché un risotto è o non è. Quindi cottura e mantecatura come si deve, densa e vaporosa, all’onda senza sbavature. Ma un risotto è anche una tela da colorare, un pensiero da esprimere, un sentimento da confessare: è più esplicito rispetto alla pasta, che qui al Giglio trattano con maestria assoluta, sempre per sottrazione, esaltandone la centralità con profumi intensamente nascosti e un’eterea incipriatura di qualche cosa, essiccata e monocromatica. No, col riso si può raccontare per filo e per segno una passeggiata autunnale, il foliage in Garfagnana, Billie Holiday e the moonlight in Vermont, e sfogliare petali di porcino come fiori di loto macchiati del rosso dell’ibisco e per contrastarli con l’ocra più ruvido e sanguigno delle cocche, quelle belle, dure, lamellate. E il profumo di terra e nocciole sale alla prima forchettata: ti sorprendi a rallentare, a posare la forchetta e respirare, camminando piano, per non disturbare l’incanto della natura. Poi l’intenso profumo di scorze di agrumi ti porta dritto fino a Natale.
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