
Quando ieri mattina ho chiamato Massimo Bottura per fare l’intervista pubblicata oggi sul Mattino mi sono trovato, nella chiacchiera off record che sempre condisce il lavoro, di fronte a questo paradosso.
“Sai Luciano, per farsi conoscere bisogna viaggiare molto, ma se stai fuori poi ti dicono che non stai mai al tuo ristorante. Noi in Italia siamo fatti così, capisci”.
Il ragionamento svolto è molto semplice: se è vero, come è vero, che la cucina italiana ha proprio in questi anni i suoi massimi livelli espressivi, come è possibile questa sottovalutazione in campo internazionale?
In poche parole, siamo nella ristorazione com’era il vino vent’anni fa: fiaschi di paglia e boccioni da cinque litri mentre già c’erano Sassicaia, Montevetrano, Sperss e via bevendo. Solo la parte colta del consumo conosce veramente la situazione, ma non è sufficiente a fare massa e a capovolgere il luoghi comuni sugli italiani spaghetti e pizza.
“Sto qui a Londra -dice Massimo- vedo gli spagnoli che si portano dietro anche le tv locali, la Camera di commercio svedese che organizza tour gastronomici, mentre noi siamo solo dei grandi solisti”.
“Non voglio far polemica con nessuno, ma è un dato di fatto”.
Già, ricordate Dante? “S’io vo, chi resta ? s’io resto, chi va?”
Una cosa è certa aggiungo io: usciamo da questo ventennio di regime mediatico come i nostri genitori e i vostri nonni uscirono dal ventennio fascista. Cioé impoveriti, autarchici, provinciali, con il Paese a pezzi e anche poco amati nel mondo per le atrocità commesse in Libia e nei Balcani.
Oggi, niente atrocità, per fortuna, ma siamo poco stimati per le cazzate sparate a vanvera da un ceto politico degno del peggiore cabaret di provincia.
E queste classifiche, per quanto non abbiamo alcun valore in termini di qualità, hanno sicuramente peso commerciale e mediatico: non a caso riflettono questa situazione.
Il paradosso italiano del professor Bottura: mai così bravi, mai così sottovalutati.
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