‘A tràfeca a Ottaviano

Pubblicato in: Eventi da raccontare

Sicuramente vi trasmetto una impressione a pelle, ma in quest’ultimo anno di vorticosi e ripetuti giri in Campania per la preparazione delle cinque guide provinciali mi sono fatto l’idea che i produttori di Napoli siano i meno angosciati e che, anzi, stiano affrontando meglio questo periodo difficile. La radice di questo atteggiamento diverso, probabilmente, è nel fatto che gran parte di loro sono vinificatori di terza o di quarta generazione e dunque hanno già affrontato numerose crisi commerciali, ben più strutturali e profonde di questa, come quelle dovute alla guerra e al metanolo. Mentre vedo molti irpini e sanniti come paralizzati dalle attuali difficoltà, che per la maggior parte di loro sono le prime da produttori, noto invece fermento e voglia di fare nei Campi Flegrei e sul Vesuvio, le due grandi aree di riferimento per la città. “Un po’ la nostra rivincita” mi disse questa estate Maurizio Russo. Prezzi sempre contenuti, uve di territorio, molta dinamicità, elasticità e prontezza mentale, e mercato di prossimità: sono questi i segreti dei vinificatori partenopei. Ripeto, è una impressione a pelle, ma qui sento meno pronunciare la parola “crisi” e, soprattutto, non si è abituati ad aspettare l’ente pubblico per muoversi e darsi da fare. In una parola, si investe.
Un piccolo ma bellissimo segnale ieri a Ottaviano, dove ho passato qualche ora da Michele Romano per la festa della tràfeca (per gli amici non campani, si pronuncia trafca con la e quasi assorbita dalla f).

Anzitutto: cosa è ‘a tràfeca? Ce ne parla il grande direttore del Mattino Giovanni Ansaldo in un breve racconto, La traffica di Gragnano, ripubblicato all’inizio degli anni ’90 dai cugini Giuliano di Mimì alla Ferrovia. In sostanza, era il giorno in cui i contadini vendevano il loro vino ai mediatori o ai vinificatori: si trattava, si litigava sul prezzo e poi alla fine, tutto si concludeva con una grande mangiata prima di ripartire con i carri, poi con i furgoni, carichi di botti di castagno colme. Ansaldo ci parla del freddo spaventoso, siamo negli anni ’50, e dello straordinario menu iniziato con antipasti di salumi, proseguito con la minestra maritata, gli ziti al ragù, la carne del ragù, un arrosto, verdura, il dolce. Sempre seduti a tavola con il cappotto. La traffica si svolgeva tra la metà di novembre e l’Immacolata a seconda delle zone e dell’andamento climatico stagionale. Questa pratica è progressivamente tramontata sino a sparire perché i contadini hanno iniziato a vendere l’uva e non il vino: è stato questo il primo grande passaggio verso il miglioramento della qualità del prodotto e dell’offerta.
Ieri Michele ha riunito tutti i suoi conferitori e con loro ha rivissuto, a vendemmia terminata, la tradizione della grande mangiata: stavolta sono stati i produttori ospiti del compratore e non viceversa. In tutto, un centinaio di persone tra contadini vesuviani e le loro famiglie.

Non era un evento promozionale finto folk come ormai quasi esclusivamente si vedono in Italia, ma qualcosa di autentico, naturale. Nel quale io e un paio di amici eravamo gli unici estranei accolti con semplicità, quella della pasta ammischiata con le patate e degli ziti al ragù. Davvero una di quelle cose capaci di confermare il senso del proprio impegno professionale, fuori dalle ritualità ormai un po’ obsolete o eccessivamente promozionali a cui ci siamo tutti abituati e che mi ha rimandato ad un’altra festa popolare a cui ho partecipato quest’anno, quella del soffritto a Vallessacarda organizzata dalla condotta Slow Food. Alla fine a ciascuno Michele ha regalato una magnum di vino novello da uva piedirosso. Così ho fatto il primo sorso, buonissimo, della 2008 mentre, mi diceva il buon Antonio Pesce, l’uva aglianico di Manimurci e La Molara in Irpinia sta ancora maturando: strepitoso. Per lui la vendemmia inizia nelle zone più calde dopo il 20 agosto e termina nella seconda metà di novembre. Un bell’impegno.
Questo sabato, purtroppo per me non vissuto integralmente con gli amici di Ottaviano perché nel pomeriggio sono dovuto scappare al giornale con un collega perdendomi il canonico spaghetto aglio e olio finale, conferma davvero la profondità delle nostre tradizioni e la ricchezza della miniera vitivinicola campana. Se la crisi ha sforbiciato un po’ di cose inutili e restituito il tempo e la misura, alla fine non sarà negativa perché il vino, per i ricchi e per i poveri, ha la sua ragion d’essere come esigenza di astrazione consapevole dalla realtà oltre che di accompagnamento al cibo. Come tale è stato celebrato da Ipponatte ai giorni nostri e sempre questa sarà la sua vera forza. Vino vino, senza di te com’aggia fa, cantavano ieri i musicanti della vicina Somma.

Ps: oggi, per la prima volta, secondo la classifica messa a punto dai giovani geniacci di Blogbabel, questo sito è al primo posto in Italia tra quanti si occupano di vino. Al 265° per la precisione su circa 14.500 nella classifica generale. Siamo quinti assoluti per il Food& Beveradge. Un po’ di soddisfazione ve la trasmettiamo perché al di là del posizionamento c’è la conferma del solido e duro lavoro quotidiano di squadra, ma ci consideriamo sempre solo gregari che hanno vinto una tappa. L’importante è continuare a stare bene insieme, in questa “bella casa tranquilla” come l’ha definita un caro amico cilentano trapiantato a Roma.


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