L’abbinamento cibo vino è una boiata pazzesca da almeno vent’anni

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista
La scheda classica dell'abbinamento cibo-vino

Cibo e vino, abbinamento impossibile? Sabato all’Expo si è tenuto un interessante convegno moderato da Enzo Vizzari in occasione della inaugurazione del Padiglione Vino curato da Riccardo Cotarella.

In sostanza, si è cercato di focalizzare questa dicotomia crescente tra piatto e bicchiere che nella cultura mediterranea si sono sempre cercati per almeno tremila anni.

Un tema che ho posto nel mio intervento, approfondito da Andrea Grignaffini. La cui conclusione, solo apparentemente paradossale, è nelle parole di Davide Oldani: mai bere mentre si mangia, ma tra un piatto e l’altro. Ricorderete tutti l’apocalittica affermazione di Marchesi secondo la quale per gustare davvero un piatto d’autore non bisogna andare oltre l’acqua.

E tutte le pippe sugli abbinamenti, i consigli delle retroetichette (selvaggina, carni rosse e crostacei…), i corsi dei sommelier? Insomma, tutto finto, tutto astratto? Inseguiamo qualcosa che non c’è ma che funziona come metamodello, tipo la purezza della razza?

Da parecchi anni nella scelta del vino a tavola mi muovo seguendo in primo luogo il mio desiderio basato su parametri essenziali e istintivi: voglia di freschezza, bisogno di un buon corpo o anche di alcol, tentazione sgrassante delle bollicine. Se ho un piatto importante penso poco al vino come se ho una bella bottiglia non mi frega niente di abbinarla al cibo.

In poche parole, il piacere del bicchiere prescinde da quello che si mangia e viceversa.

I piatti della tradizione sono il risultato di tecniche di cottura antiche e puntavano sulla esaltazione e sul bisogno di grasso in un’epoca in cui strutto, burro e olio erano una festa, conferma di sopravvivenza.

Il vino, prodotto empiricamente, aveva dei difetti che correggevano i difetti. Ecco perché si dice vini di territorio su piatti di territorio anche se dobbiamo aggiungere anche che entrambi, vini e piatti, non sono poi più gli stessi.

Con lo sviluppo dell’alta gastronomia nei ristoranti italiani si è passati progressivamente dalle ricette della tradizione a vere e proprie creazioni ottenute dalla tecnologia, dalla conoscenza chimica degli alimenti e delle loro reazioni rispetto alle diverse cotture, dalla possibilità di reperire prodotti di alta qualità, dal ripensamento degli abbinamenti.

I piatti sono così autoreferenti, non hanno bisogno gustativo di completamento anche perché se prima si cercavano i grassi adesso si punta all’essenza, agli odori, alla materia nella sua purezza ed essenzialità.

Inoltre lo stile si è progressivamente alleggerito negli ultimi vent’anni con l’ingresso massiccio di una componente marina e vegetale oltre che con l’uso più diffuso dell’olio d’oliva e di acidificanti naturali come il pomodoro e il limone.

A questo punto ha ancora un senso pensare ad un abbinamento cibo-vino? Misurare i gradi di succulenza e freschezza? Davvero pensiamo che si debbano costruire dei menu in questo modo? O, piuttosto, si tratta di incrociare due piaceri che per essere vissuti non hanno più bisogno l’uno dell’altro? Un po’ come fanno tanti stranieri in Penisola che si bevono un rosso di corpo anche sulla spigola al sale.

La Nuvola di Caprese di Cuttaia o I Ravioli di Aglio in brodo di mele di Tassa, per citare due straordinarie creazioni, o ancora la prima secca di Uliassi, l’assoluto di cipolla di Romito , gli scampi alla pizzaiola di Cannavacciuolo e il camuflage di Bottura hanno davvero bisogno di un bicchiere di vino?

Si, ma forse solo mentre li aspettiamo:-)

Ps: la conseguenza pratica di questo post, sia chiaro, è che oggi più che mai la figura professionale del sommelier è indispensabile per capire il cliente e coniugarlo al piatto e al menu. Molto, mooolto più di ieri.

 


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